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Il Sole 24 Ore

In tavola sapori ricchi di tradizione ... Anche Michelangelo e Verdi grandi estimatori delle raffinatezze culinarie del Centro Italia... Se Giuseppe Verdi è passato alla storia per le sue composizioni, pochi sanno che un altro tipo di celebrità lo riguarda in campo gastronomico: quella delle sue ricette per la cottura della spalla di san Secondo. Si tratta di un salume emiliano derivante dalla scapola del maiale, da mangiare preferibilmente cotto. Come giustamente il maestro suggeriva in una lettera del 1872: “prima di metterla al fuoco bisogna levarla di sale, cioè lasciarla per un paio d’ore nell’acqua tiepida. Deve bollire a fuoco lento per sei ore, poi la lascerai raffreddare nel suo brodo. Fredda che sia, vale a dire ore dopo, levata dalla pentola asciugala e mangiala”. C’è anche chi ama aggiungere all’acqua un bicchiere di vino bianco secco e alcune foglie di alloro. La si mangia fredda oppure scaldata a fette a bagnomaria. Altro tipo di salume è il companatico perfetto del pane sciapo toscano proprio perché molto saporito: il prosciutto del Casentino. La tradizione vuole che per produrlo vengano utilizzati incroci di antiche razze presenti nella zona: mora romagnola e cinta senese. I suini sono allevati in stato semibrado all’aria aperta e si alimentano al pascolo in sottoboschi di querce e castagni. Le cosce, dopo la macellazione e la rifilatura con taglio classico, sono sottoposte al massaggio e alla salagione nel cui impasto vengono utilizzate varie spezie con abbondante aglio. Il prosciutto del Casentino si presenta di forma tondeggiante, tendente al piatto, con sufficiente strato di grasso nella parte opposta all’anca. Regala il meglio se tagliato con il coltello e accompagnato da un buon rosso toscano. Sempre di prosciutto si parla a Bassiano, in provincia di Latina, dove ce n’è uno che si riconosce per l’aromatizzazione, dovuta all’uso di una salsa a base di vino bianco, aglio e pepe. La sua stagionatura non è mai inferiore ai dodici mesi. Dalle colline del preappennino laziale ai boschi dell’Umbria il salto non è solo paesaggistico anche di giacimento gastronomico. Nei territori che fiancheggiano il corso dei fiumi Nera, Corno e Sordo, ma soprattutto nelle colline intorno a Spoleto e Norcia raccoglie, tra novembre e marzo, il Tuber melanosporum, il tartufo nero pregiato, dalla scorza scura e rugosa e dalla polpa nero violacea. Il suo gusto fine e inebriante resiste a breve cottura e nella cucina umbra è molto usato per dare un gusto raffinato a salse, terrine e ripieni. Nelle vicine Marche, terra di pecorini, la zona di Cartoceto ospita un singolare produttore, Vittorio Beltrami. L’assaggio di uno dei suoi pecorini è un’esperienza insolita e sorprendente, poiché i caci sono affinati in barrique con erbe di montagna, foglie di noce, foglie di castagno, cenere d’ulivo. Il suolo marchigiano ha altro da offrire ai gastronauti e se chi si reca nella splendida Urbino non può non far visita al palazzo Ducale del Quattrocento, non può neppure perdere la celebre Casciotta. Si narra che Michelangelo fosse talmente goloso di questa squisita caciotta da farsela inviare regolarmente a Roma. E un formaggio a pasta friabile, semicotta, fatto con latte di pecora misto a latte vaccino. Ha un delicato sapore di latte ed è ottima con le verdure crude. Scendendo lungo lo stivale l’Abruzzo propone un salume diventato ormai raro che non ha nulla a che vedere con la famosa mortadella bolognese con cui condivide il nome. La mortadella di Campotosto è ottenuta macinando finemente spalla, lombo, grasso duro e pancetta di maiali allevati nella zona e conciando la carne con sale e pepe spezzettato. Al centro dell’impasto viene collocato un lardello e il tutto viene insaccato in lembi di budello cuciti a mano. La mortadella, legata in modo da ottenere una curiosa forma a spicchi, dopo alcuni mesi di stagionatura in cantina è pronta per essere gustata. Sempre in Abruzzo si trova una pianta, crocus sativus, che giunse qui dalla Spagna nel XIV secolo, portata dal padre domenicano Domenico Santucci, e che nel tempo ha preso il nome di zafferano di Navelli. Il terreno calcareo della regione dell’altopiano abruzzese di Navelli (L’Aquila) offre le condizioni ideali per la sua coltivazione e tra ottobre e novembre tutti gli abitanti dei paesi vicini sono impegnati nella raccolta dei fiori e nella separazione degli stimmi carichi di polvere, operazioni che vengono eseguite manualmente, con pazienza e delicatezza estreme.

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