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Il Sole 24 Ore

Eco-vigna di qualità nel carcere di Alba ... Un vigneto circonda, quasi fosse un abbraccio, l’intero edificio. A dividere i filari dalle mura di recinzione, solo la strada che i mezzi blindati debbono poter percorrere. E poi un’ampia e allegra aiuola di piante ancora fiorite davanti all’entrata, un orto ridondante di cavoli, una serra pronta ad accogliere piantine da accudire in inverno e un pozzo irriguo. Siamo all’interno della Casa circondariale “Giuseppe Montalto”, periferia di Alba, capita le piemontese del vino. “Il progetto dell’eco-vigna è partito nel 2006 - racconta Giuseppina Piscioneri, direttore dell’istituto dallo stesso anno ed è unico nel panorama detentivo. Offre formazione qualificata strettamente connessa a questo territorio e dunque un’opportunità di impiego al termine della pena. E poi, si tratta di un lavoro all’aperto in alternativa all’ozio forzato in cella”.
Il carcere di Alba ospita due I cento detenuti in attesa di giudizio, appellanti o ricorrenti, oltre ad essere l’unico in Piemonte ad avere una sezione per omosessuali e transessuali e una per ex appartenenti alle Forze dell’Ordine. Il 70 per cento di essi è straniero e quasi tutti arrivano dagli istituti di pena milanesi e torinesi. La loro permanenza può essere relativamente breve e ciò rende più complicato il trattamento per il reinserimento lavorativo e sociale voluto dalla nostra Costituzione e regolamentato dalla legge Smuraglia. “Non è questa l’unica difficoltà - dice Giovanni Bertello, giovane agrotecnico che ha seguito il vigneto dall’inizio - senza la collaborazione degli agenti, degli educatori, di tutto il personale e naturalmente della direzione, non sarebbe stato possibile. Inutile dire che bisogna sia rispettare la terra e i suoi ritmi, sia adattarsi agli orari dei detenuti e alle misure di sicurezza che li riguardano”.
I vitigni coltivati sono quattro: nebbiolo, barbera, dolcetto e cortese. “Ma se potessi tornate indietro - continua Bertello - pianterei solo il delicato e prezioso nebbiolo. Cinque anni fa non avevo considerato che le mura molto alte avrebbero protetto le piante dal vento e aumentato l’irraggiamento solare facilitando la maturazione dell’uva”. La prima vendemmia, nel 2009, porta aria di festa in tutto il carcere. Le casse colme di uva vengono trasportate presso l’Istituto Enologico albese che nel frattempo aveva accettato di occuparsi della vinificazione e dell’imbottigliamento. Mentre il vino riposa in cantina, in carcere si pensa a come battezzano e ad elaborare graficamente l’etichetta. Il nome scelto tra tanti è Valelapena, scritto tutto attaccato. Un grappolo in primo piano davanti all’entrata dell’istituto penitenziario per l’etichetta, mentre la retro ben racconta la storia del vino, simbolo del legame tra il territorio e il carcere.
L’assemblaggio delle quattro tipologie di uve autoctone coltivate dai carcerati dà forma e sostanza a un buon vino, di quelli da mettere in tavola tutti i giorni, che incontrano subito il gusto di chi lo assaggia. Un migliaio scarso di bottiglie va letteralmente ruba. “In effetti - dice Giuseppina Piscioneri - ciò che nessuno di noi aveva messo in conto è il successo che il vino ha riscosso”, L’anno scorso Valelapena viene presentato a Vinum, la principale manifestazione enologica di Alba, e cominciano ad arrivare le richieste di sommellier e ristoratori della zona. “L’Agenzia delle Entrate
continua il direttore del carcere - ci ha appena autorizzato a commercializzare il vino con il codice fiscale dell’istituto”. Quest’anno la produzione è raddoppiata, duemila bottiglie in vendita sia presso l’Istituto Enologico, sia direttamente in carcere al prezzo di 5 euro l’una. Ma è di pochi giorni fa l’ultima novità, un accordo siglato con una tra le principali multinazionali di agrofarmaci, la svizzera Syngenta. “Per tre anni - afferma Bertello - i loro tecnici terranno corsi di formazione riguardo i trattamenti da fare nel vigneto nel rispetto della nostra scelta ecologica, cioè nessun utilizzo di diserbanti né concimi chimici, anticrittogamici solo in casi estremi, e così via. In più ci forniranno i semi che coltiveremo durante l’inverno. Lavorare in serra consentirà ai detenuti di uscire dalle celle anche nella stagione in cui nulla si può fare in vigna”.

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