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Il Sole 24 Ore

Vino, la “sbornia” delle etichette Doc ... Agroindustria Le denominazioni hanno raggiunto quota 527: solo lo scorso anno 34 nuove etichette ... Una Doc non si nega a nessuno, ma tra i produttori storici e di qualità è allarme sulle denominazioni troppo facili. È la conclusione da trarre considerato che nonostante i molteplici richiami ad evitare per i vini una proliferazione di marchi, le etichette Doc, Docg e Igt in Italia hanno sfondato quota 500. Con il riconoscimento, nel corso del 2011 di 14 nuove Docg, 15 Doc e Igt, infatti, i vini a denominazione d’origine o a indicazione geografica sono diventati 527 (erano meno di 400 appena cinque anni fa) con buona pace della corretta informazione al consumatore che fa sempre più fatica a comprendere le differenze fra le diverse categorie di vino e, nella stragrande maggioranza dei casi, non riesce neanche a collocare geograficamente un’etichetta sulla cartina dell’Italia. Il nuovo boom di marchi d’origine è dovuto al passaggio di consegne, in materia di riconoscimento di nuove Doc o di modifica delle regole produttive per denominazioni già riconosciute, sull’asse Roma-Bruxelles. Fino al 31 dicembre 2011, infatti, l’istruttoria era svolta dal Comitato vini del ministero per le Politiche agricole. Col 2012, invece, ogni competenza passa a Bruxelles. Il progressivo avvicinarsi di questa data ha spinto i produttori di ogni parte d’Italia a inondare il Comitato di domande (complessivamente 320 pratiche) prima del passaggio di competenze agli organismi comunitari. Il risultato che ne è derivato è stata una nuova inflazione di etichette che rischia di rivelarsi, fra l’altro, un alleato della contraffazione dei prodotti made in Italy che si vorrebbe tanto combattere. Infatti, più cresce il numero dei marchi (e quelle made in Italy solo centinaia) tanto più risulta difficile assicurare loro una tutela internazionale. Per quanto riguarda il capitolo vini emblematico è poi il caso delle Docg (denominazione d’origine controllata e garantita). In passato ha rappresentato la crème della produzione enologica nazionale racchiudendo nomi come Brunello di Montalcino, Barolo, Barbaresco o Amarone. Vini, insomma, che sui mercati internazionali sono sinonimo di made in Italy e che oggi, all’interno di una categoria arrivata a quota 74 riconoscimenti, vengono affiancati a nomi come Valdicornia Rosso, Bagnoli Friularo (che non è un refuso ma un vino veneto), Rosazzo o Malanotte. Che saranno anche ottimi prodotti, ma che al consumatore medio risulta anche difficile immaginare da quale regione d’Italia provengano. Altro paradosso è poi quello delle Doc comunali. Nell’ultima infornata di riconoscimenti ci sono ad esempio la Doc Roma e la Doc Venezia (che si affianca alle preesistenti Igt Tre Venezie e alla Doc Serenissima che comprende tutte le provincie venete tranne Venezia). Si tratta di due marchi che, soprattutto all’estero, beneficeranno del traino dovuto alla notorietà internazionale delle due famose città. Anche se risulta difficile individuare sul loro territorio comunale dei vigneti, anzi, nel caso di Venezia (a parte l’operazione effettuata dal produttore Bisol che ha restaurato l’antica vigna dell’isola di Mazzorbo) probabilmente ci sono più metri cubi d’acqua che di terreni agricoli. Il ministero per le Politiche agricole si difende, specificando, attraverso il presidente dei Comitato vini, Giuseppe Martelli, che “il parere dell’organo ministeriale tiene conto solo della correttezza formale della domanda di riconoscimento. Questo perché il Comitato vini non è un organo di indirizzo: la politica vitivinicola spetta al ministro e alle Regioni”. Insomma, perché un’etichetta abbia diritto d’esistere basta che un solo produttore la richieda, non importa se mai finirà davvero su una bottiglia divino. Una considerazione che spiega una volta di più come uno strumento come le denominazioni d’origine, che ha dato un importante contributo allo sviluppo internazionale e alla notorietà del vino made in Italy, sia stato sacrificato sull’altare del campanilismo.

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