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Il Sole 24 Ore

Ce ne siamo un po’ tutti dimenticati. Prima della
grande crisi, quando impazzava il risiko del finanzcapitalismo,per dirla con Gallino, ai forum di Davos ci consigliavano di dedicarci all’enogastronomia. I giochi erano troppo alti per un’italietta di piccole e medie imprese, poca borsa, e striminzite metropoli globali. Come è andata a finire si è poi visto. Non che io sia per una difesa acritica dell’italietta. È un’altra retorica falsa con cui si è risposto all’ironia dei soloni finanziari, dicendo che qui andava tutto bene e i ristoranti erano pieni. In mezzo alle due false retoriche, alle ideologie finanziarie e localistiche, alla fine rimangono i soggetti reali.
Domani apre a Verona Vinitaly, grande fiera globale di un settore che, come certifica l’Istat, continua a crescere con segno più per l’export. A Siena si sono riuniti i sindaci delle città del vino. Piccola rete territoriale fondata venticinque anni fa da 39 sindaci dentro la crisi di una produzione “fordista” basata sulla quantità segnata dallo scandalo del metanolo. Il post fordismo, meno vino di quantità e più bottiglie di qualità, li ha portati ad essere una rappresentanza territoriale di 550 comuni da Trento a Trapani. Un sindacato di territorio che si interroga su come affrontare questa crisi con reti attrattive per il turismo borghigiano, i buoni ristoranti e reti lunghe per le bottiglie di qualità nel mondo. Hanno la presunzione, avendo chiaro che il paesaggio e l’ambiente nell’economa dell’esperienza è un valore, che il bello è un valore, di sentirsi protagonisti della green economy non solo perché chiamano gli archistar come Renzo Piano a progettare le cantine d’autore. Così come discutono aspramente di patto di stabilità perché senza politiche e risorse per la coesione sociale muoiono, e non trattengono i giovani, molti comuni polvere in cima alle colline dei vigneti. Altro che casta dei piccoli comuni da cancellare. Sono talmente altro dalla marginalità che hanno dato incarico al Censis di stilare una mappa della loro offerta. Nel circuito territoriale vi sono 1.400 produttori di qualità per 80 milioni di bottiglie e 3.000 ristoranti. Una filiera che tiene a fianco delle altre filiere manifatturiere. Basta fare l’elenco delle top ten: Cuneo, Siena, Verona, Bolzano, Firenze, Trento, Asti Brescia, Udine e Gorizia. Verrebbe da dire che è l’eterno nord centro che ritorna. Ma se usciamo dai top ten e guardiamo al corpo intermedio delle città del vino, ci accorgiamo che in venticinque anni sono cresciuti spazi intermedi che tendono a rompere il tetto di cristallo: il Salento con Lecce, la Sicilia con Ragusa e Trapani, l’Irpinia, che sembra voler essere le Langhe del sud, e nel centro non solo Siena, ma Perugia, Ancona, Forlì. Uno sviluppo a macchia di leopardo dove aumentano, nel giallo della campagna, i punti neri della qualità. Diffuso il modello sul territorio, il problema è come spalmare la domanda evitando che Montalcino diventi come San Marino e che a Santa Giuletta non arrivi nessuno. Quindi si ragiona di competitività nei flussi turistici, del rapporto contado-mare-montagna. Di filiera territoriale dei vini e della gastronomia. Di come ricollocare lo spazio di posizione in spazi di rappresentazione che hanno già brand: Le Langhe, il TuscanyShire, la Romagna, il Salento. In Italia c’è il circuito del vino e della ristorazione che vuole attrarre il mondo ma anche avere spazio nel mondo


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