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Il Venerdi' Di Repubblica

La nuova cucina delle “hosterie” non vale un’acca ... Osteria è parola, dal punto di vista semantico, vessata di traversie. Rinvia a picaresche mangiate in viaggi popolari o all’epica moschettiera, per non parlare del desinare scioperato di Pinocchio in cattiva compagnia. “Oste della malora” fu richiamo arrogante dei film d’avventura e all’osteria consumavano pasti grami e burrascose bevute i “noantri” delle passatelle trasteverine. Rimpiango l’osteria ed evito “l’Hostaria”. Quell’acca, cara ci costa e cari ci costano gli articoli davanti al nome dei piatti nel menu. Il popolare diventa popolaresco e ci tocca sopportare la paccottiglia folcloristica e il sovraccarico del lusso snob: “I primi, i secondi, Dalla nostra griglia, Dall’orto, Dalla paranza di nonno Peppe”. È chiaro che i tenutari dell’Hostaria non hanno nè orto, nè griglia, nè paranza e nonno Peppe che faceva Il sacrestano è morto da anni, ma con quegli articoli e la forbitezza della lingua credono di salire di rango. Certo, costano molto di più i “rigatoni in crosta di pane del nostro forno con le schegge di grana e bons bons di tartare” della pasta al forno con le polpette e dovrai dilapidare sostanze per “I cenci di manzo in guazzetto di vin brulè con la spuma delle novelle”. Straccetti di carne al vino con le patate. Aridatece l’osteria.

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