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SFIDA

Il vino naturale alla ricerca della qualità: la genuinità non basta, no a puzze e instabilità

Il manifesto “La forma e la sostanza, le luci e le ombre” firmato Sandro Sangiorgi e Viniveri: “perseguire una bellezza completa”

Quello del vino naturale è un mondo talmente variegato da sfuggire a semplificazioni e definizioni. Ma anche un microcosmo ormai uscito dalla nicchia, capace di riunire intorno a principi produttivi che mettono al bando la chimica e le biotecnologie, vignaioli, appassionati, enoteche, wine bar e ristoranti in tutta Italia. A darsi regole precise, qualche anno fa, era stato il “Consorzio Viniveri”, che riunisce 24 viticoltori di Italia e Slovenia e, ne “La Regola”, indica “le azioni che permettono a una produzione di esprimersi pienamente e raggiungere l’obbiettivo di ottenere un vino in assenza di accelerazioni e stabilizzazioni, recuperando il miglior equilibrio tra l’azione dell’uomo ed i cicli della natura”. Una serie di norme piuttosto semplici che, se “bastano” a garantire la genuinità, a volte non sono condizione sufficiente a garantire anche la bontà di un vino. Capita anzi che imperfezioni tecniche vengano spesso spacciate per tipicità di un vino sì genuino, ma a volte imbevibile. Un tema diventato particolarmente urgente, al centro del manifesto “La forma e la sostanza, le luci e le ombre”, firmato proprio a “Viniveri” (di scena a Cerea, nei giorni scorsi) da Sandro Sangiorgi, tra i fondatori di Slow Food e tra i maggiori divulgatori ed esperti di vino in Italia, di cui ha scritto per Slow Wine, Gambero Rosso, Sale & Pepe, Cucina Moderna e GQ, e dal presidente “Viniveri” Paolo Vodopivec.

Focus - Il Manifesto “La forma e la sostanza, le luci e le ombre”
Molti produttori si stanno pericolosamente abituando a imperfezioni tecniche, più o meno gravi, considerandole peccati veniali o, ancora peggio, aspetti caratteristici dei propri vini, e sovente anche di quelli dei colleghi. Sentivo che sarebbe accaduto, tuttavia ho evitato accuratamente di crederci: dal mostruoso equivoco delle cantine convenzionali che firmavano appelli per sottolineare l’indispensabilità della chimica e della biotecnologia per definire vino il fermentato del mosto d’uva, stiamo passando al paradosso mostruoso di chi considera la competenza tecnica un ostacolo alla realizzazione del liquido odoroso, quasi che meno si sa e meglio si riesce.

C’è un lassismo del tutto immotivato nei confronti della relazione tra forma e sostanza, c’è una diffusa indulgenza che sdogana liquidi imbevibili. Una questione fondamentale è non scindere mai i concetti di forma e sostanza, non cedere alla banale esteriorità ma, nello stesso tempo, non cadere nella trappola della genuinità come unico riferimento qualitativo. Se ci s’impegna in un’attività nella quale contano, insieme alla tecnica agronomica e al lavoro di campagna, spiritualità, educazione, pratiche manuali, capacità di osservazione e confronto col pubblico, non si può pensare a priori di far prevalere una delle due entità, la forma o la sostanza, nel lavoro è doveroso perseguire una bellezza completa.

Esiste un problema di percezione e riconoscimento della qualità, aspetto da non confondere mai con la genuinità. Quest’ultima è parte fondante di un vino buono, tuttavia l’espressione “al vino non è stato fatto nulla”, che giustifica puzze e instabilità, rivela quanto si sia lontani dall’etica di forma e sostanza. Il vino è una bevanda di piacere, dunque è contenuto e contenitore, carne e respiro, sangue e nervi, accoglienza e complessità, sogno e riflessione.

Oltre che imparare a vinificare, maturare e affinare il frutto del proprio lavoro agricolo, diventa ineludibile educarsi alla degustazione, in modo da coltivare un senso di bellezza che elevi e non appiattisca tanto sforzo. Sembra incredibile, ma se i vini convenzionali hanno negato e stanno negando la restituzione del luogo, molti vini naturali la nascondono o la confondono tra le maglie di infezioni endemiche, grossolane riduzioni e un’inconcepibile mancanza di custodia.

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