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Io Donna / Corriere Della Sera

Andar per Langhe ... L’accezione comune, andar per Langa significa - più o meno - camminare sui fianco di un colle (che ritmo in quell’incipit dei “Mari del Sud” di Cesare Pavese!), passando da una all’altra di quelle straordinarie formazioni preappenniniche che, da Mondovi ad Acqui Terme, caratterizzano la parte centrale del Sud Piemonte. Sono le Langhe, quelle durissime dall’altitudine più elevata, dove per secoli ha regnato la fame e anche un po’ di pellagra e quelle un po’ più dolci che scendono verso il Tanaro fino ad arrivare alla loro Capitale riconosciuta, Alba, e incontrare, subito dopo il corso del fiume, quegli altri quasi incontaminati rilievi che formano il Roero.

Si diceva della fame. Oggi non più, le campagne si sono spopolate, la natura in molte zone è tornata a dominare l’uomo e a condizionare la vita, gli stupefacenti panorami che si aprono alla vista salendo la Langa del Belbo - quella che da Canelli e Santo Stefano arriva fino a Niella Belbo e Mombarcaro - sono diventati un patrimonio da conservare e tutelare. Un piccolo grande tesoro che mai come in questa stagione può stregarci quando le cime delle colline spuntano di primo mattino dalle foschie notturne o il gheppio, per non parlare della poiana, escono a caccia dai boschi di castagni. Uno spettacolo unico ancorché selvaggio al punto giusto, che mette l’animo anche del più duro di cuore nelle giuste predisposizione e attesa per i valori che si incontreranno scendendo più a nord (scendendo è il verbo giusto, non ci siamo sbagliati in questa terra che ogni tanto davvero all’incontrano va, si scende e non si sale verso Nord), diretti alla “capitale” Alba. Ricca di storia, di monumenti, dei suoi artisti rinascimentali (uno per tutti Macrino che se la dovette vedere con il Pinturicchio alla corte papale), dei suoi artisti contemporanei come Pinot Gallizzio, dei suoi scrittori come Beppe Fenoglio, lo schivo personaggio usato da una Resistenza antiretorica per consegnarci alcune delle pagine più belle del Novecento italiano. È una città piccola ma di grande temperamento. E l’Alba del tartufo bianco e delle cose buone, del Barolo e del Barbaresco che si producono poco fuori dai suoi confini, che riesce a portare mille persone in piazza dcl Duomo a veder giocare un antico affascinante gioco di palla per uomini veri che si chiama ‘pantalera’ ed è la versione rustica della Pallapugno, come è detta oggi. Sono gli umori che trasudano dalle tradizioni, dalle antiche abitudini mai dimenticate del vivere semplice ma fiero, del mangiare poco ma sano e quel poco, se possibile, di buona qualità. Sono, in poche parole, i valori della provincia piemontese, del basso orgoglioso profilo che vale la pena di scoprire anche quando si sta sotto l’imponente mole del castello di Serralunga o si ammira il più gentile castello di Barolo o ancora quando si entra nelle magiche atmosfere del castello di Grinzane dove Cavour abitò o si fa conoscenza con la Casina di caccia di Fontanafredda dove si consumarono tra gli alri, gli amori tra Vittorio Emanuele II e Rosa Vercellana, detta la “Bela Rosin”, Valori che, quasi per magia, ma c’è da pensare che la mano dell’uomo qua e là c’entri in qualche modo, si innestano sulla cultura del buon mangiare e del buon bere. Vigneti, noccioleti, castagni, pascoli. Ognuno per la sua parte fornisce materia prima per prodotti di assoluta eccellenza: i grandi vini delle Langhe (Dolcetti e Barbere, non solo i sempre citati Nebbioli che poi diventano Baroli e Barbareschi e non dimentichiamo il gracile ma curiosissimo Pelaverga di Verduno, le nocciole tonde gentili delle Langhe che andranno a rendere speciali cioccolati e torroni, le castagne che si potranno consumare nel modo più semplice e popolare possibile bollite o arrostite, i vitelli della “piemontese” sottospecie “albese”, che forniranno carni strepitose, magre e gustose allo stesso tempo, quasi una contraddizione in termini, gastronomici s’intende. In sostanza qui possiamo davvero andare alla scoperta di quello che i francesi definiscono “terroir” che è sì il territorio, ma solo se comprende cultura materiale, arte, prodotti della terra e dell’ingegno dell’uomo, paesaggio, animali, fiori, torri antiche e cantine scavate nel tufo. Lo si può fare senza troppa fatica salendo a La Morra, il topos di queste parti perché di qui si può guardare fino all’altra cima di Santa Vittoria, che è già nel Roero, con la sua antica torre, ma si vede anche Cherasco e la Pollenzo romana, poi sabauda e oggi luogo di delizie universitarie e di accoglienza, e, a sud Monforte, un’altra delle roccaforti dei Barolo, ma anche Roddi, Serralunga, Grinzane, Barolo, Castiglion Falletto, tutte merlate di torri e muri di mattoni rossi che talvolta si uniscono per confondersi con le ultime foglie della vite e, in lontananza, non si distinguono tanto facilmente nemmeno dal giallo oro degli alberi che attendono l’inverno. Uno spettacolo mozzafiato che, soprattutto in annate come questa, ancora tiepida e secca a novembre, diventa uno stato dell’anima.

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