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L'espresso

Glocal da gourmet ... Ruolo centrale del contadino. Linea diretta tra produttori e consumatori. Per creare una economia basata sulle comunità. La scommessa del fondatore di Slow Food... Sarà finito il tempo in cui il lavoro dei contadini ha significato antimodernità e arretratezza; rappresentare nel mondo produttivo la classica ultima ruota del carro? Nel secolo da poco trascorso, in particolare a partire dagli anni ‘50, il nostro Paese è stato caratterizzato da una progressiva spoliazione della cultura rurale, che è diventata sempre più marginale rispetto ai temi economici, sociali e politici. Si è affermata l’idea che si può produrre cibo facendo a meno dei contadini. In Italia, negli ultimi cinquant’anni, siamo passati da circa metà della popolazione attiva impiegata nelle campagne a soli pochi punti percentuali sul totale. È il risultato che si è ottenuto privilegiando soprattutto i modelli dell’agricoltura industriale: spopolamento delle zone rurali, invasione di monoculture, allevamento intensivo, abbassamento della qualità media del nostro cibo, biodiversità falcidiata, perdita di antiche conoscenze e saperi tradizionali, crescita dell’inquinamento, abbrutimento del paesaggio. Il bilancio è davvero allarmante e per di più continuiamo a ricevere dati preoccupanti sullo stato di salute della Terra, che sembra stia boccheggiando. Sembra incredibile, ma secondo il Millennium Ecosystem Assessment pubblicato dalle Nazioni Unite nel 2005, i principali imputati della situazione critica del nostro pianeta sono proprio la produzione, trasformazione e distribuzione del cibo. Molti affermano che è assolutamente necessario aumentare la produzione perché molte zone del pianeta sono afflitte dalla malnutrizione, se non dalla fame: la Fao però sostiene che nel mondo si produce cibo per quasi 12 miliardi di persone, mentre siamo in 6 miliardi e 800 mila.
Si spreca molto, si distribuisce male e confusamente, il nostro sistema economico ha bisogno di indurre le persone a consumare sempre di più, e spesso cose superflue: questo è il vero problema. La crescente diffusione dell’obesità è soltanto l’altra faccia di una medaglia piena di paradossi. Le storture sono diventate molto difficili da nascondere e sono state amplificate dagli scandali alimentari grandi e piccoli; la consapevolezza di produttori e consumatori cresce e le reazioni si stanno finalmente facendo vivaci, creative e cominciano a contare in termini di peso economico. Questa è una delle tendenze emergenti più importanti: se davvero ci sta a cuore il nostro pianeta e la nostra salute è fondamentale attuare un’agricoltura rinnovata, pulita, in grado di produrre correttamente sia per gli ambientalisti, sia per i gastronomi. Un’agricoltura non solo certificata biologica (un settore in forte crescita), ma “strutturalmente” biologica, perché nutre tutto il necessario rispetto per la natura, per l’ambiente e per gli uomini. Il punto più importante è proprio la sostenibilità dei processi, il mantenimento del territorio inteso nel suo senso più ampio, la proposta di prodotti di qualità finalmente accessibili a tutti. Da questo punto di vista si stanno formando nuove ipotesi distributive, che si stringono attorno al concetto definito tecnicamente filiera corta. Accorciare le distanze tra produzione alimentare e consumo ha molti vantaggi: consente di limitare i danni all’ambiente perché fa a meno di molti inutili trasporti inquinanti e di metodi di produzione che seguono le regole dell’industria e non della natura; realizza importanti economie territoriali, nel segno del mantenimento dell’integrità delle culture locali e con garanzia per il loro futuro; responsabilizza il produttore circa la qualità di ciò che fa e i metodi che utilizza, educando il consumatore nella misura in cui i due soggetti vengono a contatto diretto tra di loro e dialogano. Trovo che la filiera corta sia una prospettiva di estrema modernità, anche se deve necessariamente ricorrere a modelli che erano stati abbandonati perché ritenuti arcaici o anti-economici: mercati in cui sono direttamente i contadini a vendere i loro prodotti, piccole produzioni tradizionali e aziende agricole non più concentrate sulla monocultura. La cosa interessante poi, è che questi modelli, combinati con altri ben più moderni quali le tecnologie telematiche e la costruzione di reti sociali, assumono un nuovo importante potenziale.
Ci sono molti esempi in Italia e nel mondo: i farmer’s market di matrice statunitense, che si stanno riproponendo anche da noi nel segno della migliore tradizione mercatale italiana, in grado di ravvivare le comunità locali e di avvicinare le campagne alle città; il modello della Community Supported Agricolture, che permette di stringere una forte alleanza tra produttori e consumatori, con questi ultimi che acquistano in anticipo la produzione annuale del contadino, garantendogli un giusto prezzo e assicurandosi a domicilio alimenti per tutto l’anno, nel segno della stagionalità, della qualità e della freschezza. Ci sono poi i Gruppi d’acquisto e molte nuove imprese agricole concentrate su prodotti naturali e autoctoni, destinati soprattutto al mercato locale. In questo modo il territorio - compresa la città - si fa sempre di più comunità, mettendo al centro delle sue dinamiche il cibo. Ecco un altro elemento che caratterizzerà gli anni a venire: la centralità del cibo. In una prospettiva fortemente economica, ma anche culturale, rilocalizzata, in cui i giovani sentiranno di nuovo un forte appeal per il comparto produttivo alimentare tradizionale. La figura stessa del contadino sarà riabilitata in quanto custode di saperi preziosi, del nostro ambiente e del nostro benessere. Finiranno i tempi in cui il contadino sarà l’ultima ruota del carro: egli diventerà una figura di primo piano; anche a livello semantico sarà di nuovo orgoglioso di chiamarsi contadino, senza nascondersi più nella più fredda e industrializzata denominazione di imprenditore agricolo.
Ci saranno un nuovo concetto di produttore e un nuovo modo di sentirsi consumatori, tanto che il consumo stesso potrà perdere le sue connotazioni di spreco e, per l’appunto, consunzione delle risorse, per farsi atto finale ma partecipe della produzione stessa. Sarà la trasformazione del consumatore in co-produttore, un soggetto creativo, attivo e informato. Questa centralità del cibo probabilmente sarà portatrice, nel lungo periodo, di un nuovo modo di fare economia, in cui alle leggi del mercato internazionale si sostituiranno progressivamente economie di comunità locali che sanno stare in rete tra di loro e ne traggono reciproco beneficio. Un’economia della natura, quasi a sottolineare, in contrapposizione a quella di mercato, che l’unica vera “grande mano invisibile” è ormai quella di nostra Madre Terra, che necessita rispetto. Credo che in seguito a questo processo di trasformazione della civiltà rurale, il cibo, che in questi anni si è come smaterializzato, perdendo valore e contenuto, ritornerà ad avere la giusta tangibilità in quanto elemento indispensabile per la nostra felice esistenza su questo pianeta. In fondo tutti lavorano per mangiare: perché il cibo deve diventare elemento marginale, responsabile del nostro declino ecologico e della perdita di piacere nelle nostre vite? Sarà sicuramente ora di un “ritorno alla terra”, sia in senso letterale che metaforico.
(arretrato de L'Espresso del 29 dicembre 2006) 

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