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Allegrini 2024

L'espresso

Professore e contadino ... Agricoltura ed equità sociale. Cibo verde e rispetto dei poveri. Altro che gastronomia: il libro “Terra Madre” di Carlo Petrini è un programma politico... In calce alle pagine di “Terra Madre”, che è l’ultimo e anche il più determinato libro di Carlo Petrini, ho appuntato più volte la parola “socialismo”. Decida ognuno se questa qualifica collochi Petrini nell’estrema scia di un movimento antico, oppure all’avanguardia di un pensiero nuovo. Certo è che non ho trovato altro termine che esprima meglio il profondo sentimento comunitario e associativo (il socialismo fu prima di tutto auto-organizzazione dei produttori) che permea il lavoro ormai trentennale del fondatore di Slow Food. E, soprattutto, non ho trovato una parola che indichi meglio la fatica - la stessa dei padri del socialismo - di riflettere e di lavorare sulla struttura profonda dei rapporti tra ceti e persone, senza farsi troppo condizionare dalla sovrastruttura culturale e politica che avvolge e dissimula questo nocciolo. Il pensiero di Petrini è, in questo senso, radicale. Va a toccare - o perlomeno: cerca di farlo - la natura profonda del rapporto tra gli uomini e il lavoro, gli uomini e il mercato, gli uomini e gli altri uomini. E chi conosce e frequenta Carlo detto Carlin sa che questa ricerca non ha preso le mosse da un esercizio teorico, ma da una lunga, tenace pratica della socialità. Il convivio (bere e mangiare insieme, parlarsi, cercarsi, organizzarsi in comunità solidali) è l’uovo dal quale sono nate tutte le sue galline, alcune decisamente imponenti come il raduno mondiale dei contadini Terra Madre, del quale questo libro prende il titolo e sviluppa le intenzioni politiche. Dunque è una pratica “calda”, profumata di cibo e di fuoco, di voci e di volti, di chiacchiere e di canti, il campo per niente astratto che Petrini è andato dissodando e coltivando in tutti questi anni: e non solo nel nativo Piemonte, ma in giro per il mondo, dall’India all’Isola di Pasqua, dai latifondi cerealicoli degli Stati Uniti alle piccole enclaves messicane dove si coltiva la vaniglia (anzi, la madre di tutte le vaniglie). Così che in una civiltà che va smaterializzandosi lungo le autostrade virtuali e tecnologiche, la sua esperienza rischia lo scandalo dell’anacronismo: non c’è suo detrattore che non lo collochi tra i laudatori dei tempi andati, custode di radici, di sapori e di pratiche che appaiono “di nicchia”. Ma non c’è suo sodale o estimatore che non colga, al contrario, l’enorme potenziale “rivoluzionario” della predicazione (e della pratica) petriniana, che sogna di ritrovare il bandolo della dignità del lavoro umano proprio laddove questo ha iniziato a perdere centralità e potere: nelle comunità agricole. Come quasi tutti ormai sanno, Petrini individua nel cibo l’elemento Alfa non solo della vita biologica (come è quasi ovvio), ma anche della vita sociale del pianeta. la produzione del cibo, il suo mercato, il suo consumo, le culture materiali che attorno al cibo si sono sviluppate, incrociate, scontrate, i rapporti di forza (paurosamente squilibrati) tra produttori e mercanti, il violento impatto dell’agroindustria, della pubblicità, del consumismo sul concetto stesso di cibo. L’agricoltura, insomma, la cui definizione storica di “settore primario” oggi appare, in un paese post-industriale come il nostro, quasi beffarda alla luce del peso quasi nullo che esso occupa sulla scena mediatica e nel dibattito politico: si pensi alla preoccupante diserzione di molti potenti dell’Occidente al recente vertice mondiale della Fao. E si pensi, anche, che il quasi incredibile meeting mondiale “Terra Madre”, che ogni due anni raduna a Torino migliaia di contadini di ogni continente, ottiene i suoi pochi scampoli di celebrità mediatica quasi solo in virtù dei suoi aspetti “pittoreschi”, di suggestione antropologica alla “National Geographic”, e non per la sua alta qualità politica: i contadini, gli allevatori, i pescatori, gli addetti al “primario” sono ancora la metà del genere umano, e mettere in rete comunità remote, culture isolate, il proletariato disperso dei campi e dei pascoli, dei mari e delle valli, non ha valore “antropologico” quanto un evidente valore politico. Questa natura politica del lavoro di Petrini, dall’idea-base di Slow Food fino a
quella vera e propria Internazionale Contadina che è Terra Madre, è uno dei pochi segni originali, forti, distinguibili nell’opaco panorama della sinistra italiana ed europea. E “Terra madre”, il libro,
è uno dei sempre più rari tentativi di nuovo manifesto, di riassetto ideologico, di sforzo programmatico, di confutazione dello status quo (Petrini, nel suo libro, chiama tutto questo “analisi logica”, quasi richiamandoci a un abicì intellettuale smarrito). Eppure, nonostante i premi internazionali, le copertine di “Life”, i tour americani nelle università gremite, Petrini in Patria è profeta appena quanto basta per avere fama di gastronomo (e lo è), o di difensore di tradizioni
contadine tanto amabili quanto inoffensive. Il suo credito intellettuale, nella sinistra dei partiti e della politica attiva, è rarefatto e appartato, come se si occupasse non già di ciò che è primario per definizione, quanto di un affascinante ma ozioso protezionismo delle care buone cose di una volta.
Ma se leggete questo suo libro, che riflette sulla catastrofe della fame, sulle ferite mortali all’ecosistema, sulla perdita di ricchezza (non solo culturale) che l’“ossimoro dell’agricoltura industriale” ha causato e causerà, sul dramma dell’urbanizzazione di masse sterminate di contadini sradicati, sulla mancanza di qualità e di misura dei comportamenti alimentari, sulla fame contrapposta alla bulimia e allo spreco, vi renderete conto che la fama di “gastronomo” di Petrini ha finito per distorcere il senso del suo lavoro. Tra i non molti che hanno colto questo senso, il priore di Bose Enzo Bianchi, monaco e anch’egli gastronomo, nella sua post-fazione ringrazia così Petrini: “Ti siamo grati di insistere sulla gravità e l’urgenza dell’attuale situazione: proseguire sulla via dell’eccesso e dello spreco, a danno del prossimo e delle capacità vitali del pianeta, non è solo vergognoso, è soprattutto suicida, perché mette a rischio la sopravvivenza della creazione, della terra che condividiamo”. Leggendo “Terra Madre”, i rischi che ci appaiono appaltati, oggi, soprattutto a un pensiero eco-catastrofista, a volte figlio della depressione culturale e psicologica più che dell’analisi materiale, riassumono la loro evidenza razionale. Petrini li racconta, li analizza, li documenta a partire dalla sua esperienza sul campo, sintesi di infinite esperienze minute. La messa in rete di queste esperienze, che geograficamente e politicamente rischiano l’isolamento o il fraintendimento, è il capolavoro politico di Petrini. Il contadino del Chiapas, l’allevatore nomade del Maghreb, le agronome africane, l’intrecciarore di cappelli di Panama e infinite altre comunità della terra, e della Terra, oggi si sentono meno soli, hanno “coscienza di classe”, contatti su larga scala, cultura comune. La sinistra “senza popolo” ne avrebbe uno, immenso, a disposizione: a meno di considerare “nicchia”, o retaggio di tempi ormai conclusi, la metà del genere umano.

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