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L'espresso

Adesso però esportiamolo ... Come sta il vino italiano? Bene, benino, anzi piuttosto male. Esce la Guida “I Vini d’Italia” e fotografa una situazione che vede in gran spolvero il Piemonte per i rossi e l’Alto Adige per i bianchi, una buona e scontata affermazione dei toscani di qualità, la conferma del dinamismo di Puglia, Campania e soprattutto Sardegna... ...La “Guida” saggia e attesta i trend e la tenuta, compatibilmente con la variabilità delle annate, dei valori certi, e mette in evidenza le realtà che crescono. Ma il vino oltreché farlo bene bisogna venderlo, possibilmente bene. E bisogna venderlo soprattutto all’estero, perché l’Italia, con i consumi pro capite in costante e inesorabile calo, rappresenta un mercato minore per una produzione che, un anno più e un anno meno, si attesta intorno ai 45 milioni di ettolitri. È vero che l’export nel 2010 è ripartito (sono freschi i dati che rivelano un buon incremento delle esportazioni in volumi e in valore verso gli Usa, il mercato più importante, dopo il pessimo 2009). È vero che i nostri vini di qualità e di prezzo più elevato, i premium wine, hanno tenuto meglio rispetto a quelli dei paesi di più antica tradizione, Francia e Spagna in testa, che come l’Italia hanno patito la concorrenza aggressiva dei “nuovi produttori”, Cile, Argentina, Australia, Nuova Zelanda... Allora perché il vino italiano, inteso come sistema, ha la febbre? Perché da Nord a Sud troppe cantine sono piene di vino invenduto e quindi sono disposte a svendere. Perché troppi viticoltori non accettano la logica della riduzione della capacità produttiva e della crescita qualitativa, preferendo anno dopo anno riscuotere i contributi per la distillazione delle eccedenze prodotte anziché accedere a quelli previsti per incentivare l’estirpazione dei vigneti: le cooperative dell’Astigiano - quelle stesse che hanno portato in piazza i vignaioli furibondi per l’irrisorio valore di 30 centesimi/litro riconosciuto alla Barbera - hanno rifiutato 6,5 milioni di euro assegnati al Piemonte per diradare le uve della vendemmia 2010. Perché troppi vitivinicoltori giudicano disdicevole occuparsi di marketing, non capiscono che l’imperativo è esportare e, anche se lo capiscono, non sono attrezzati per farlo. Perché sono fragili, dispersive e mal gestite le decine e decine di iniziative e di strutture che dovrebbero promuovere la cultura e la pratica dell’export, accompagnando i piccoli sui mercati esteri, dove Gaja e Antinori come Zonin e Santa Margherita rappresentano le avanguardie di un esercito eterogeneo e “sparpagliato”. Ecco perché, preso e dato atto una volta di più che in Italia si producono vini eccellenti, non è proprio il caso di indulgere all’ottimismo.

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