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L'espresso

Il massimo in cucina … La guida dei ristoranti d’Italia de L’espresso incorona Bottura come chef numero uno. Con un voto che sfiora la perfezione: 19,75/20… Il rischio che ora si monti un po’ la testa proprio non esiste: perché ha sempre detto di averla tra le nuvole. Semmai, se prima erano i piedi a trattenerlo a terra, oggi Massimo Bottura è un uomo che vola: sia che si tratti di acciuffare un treno regionale per Bologna, destinazione mondo, che di blitz gastronomici per il pianeta, Stati Uniti e Lapponia, sosta in Messico e ritorno via Perù, in una settimana. Corre coi pensieri, gesticola di continuo, insegue immagini nell’aria, straripa creatività lo chef numero uno della Guida “I ristoranti d’Italia 2011” de “L’espresso”, con un punteggio mai assegnato prima: 19,75. Una conferma definitiva per l’Osteria La Francescana di Modena. Montatura leggera, borsa di tela ecofriendly, maglioncino light ormai icona di modernità asciutta ed essenziale, Massimo Bottura è un uomo diretto e senza fronzoli. Tranne quando lo lasci libero di parlare: jam session di arte e di musica, di viaggi e incontri, prima che di sapori. Cita, ricorda, non schiva: va incontro alle domande come sulla tavola da surf, sport che vorrebbe praticare di più se imprevisti fisici non gli ricordassero che non ha più l’età. All’anagrafe di anni ne ha 47, due figli di 10 e 14 anni, una moglie americana ed esperta d’arte. L’età per sorridere del viaggio fatto, e di tutti i sacrifici: da una trattoria a Nonantola -1986- a La Cantoniera con Georges Coigny. Fino all’invito di Alain Ducasse, la gavetta a New York, l’esperienza da Ferran Adrià. La Francescana, via Stella 22, nasce nel 1995. Quindici anni dopo è un tempio della gastronomia: tre menu a 90, 130, 160 euro; undici tavoli per 22 coperti, e arte ovunque: alle pareti, nel menu, nella testa dello chef.

Il numero uno. Come ci si sente?

“È una grande responsabilità. Mi sforzo di vivere i riconoscimenti in modo naturale. La mia è stata una crescita lenta, continua, senza scorciatoie. Come un albero che ha messo radici così forti da non essere spazzato via al primo vento”.

Ogni riferimento alla bufera contro la cucina molecolare che l’ha investita l’anno scorso è puramente casuale?

“Acqua passata. Sono andato avanti per la mia strada. La mia cucina è cresciuta”.

Le si contestava un’eccessiva sperimentazione tecnica su piatti della tradizione. Lei definisce la sua “cucina di territorio”, anche se visto a distanza. Il senso di Bottura per il territorio?

“La mia cucina non è un ricettario, un elenco di ingredienti o una dimostrazione di conoscenze tecniche. È un modo di approfondire il mio territorio. Ma tutto è in cambiamento: le cose, le opere, le persone. Anche la cucina non è un museo. Quello che mi chiedo è come applicare questa idea alle materie prime della mia terra, utilizzando le con rispetto. Siamo sicuri che la tradizione abbia sempre avuto questo rispetto?”.

E lei che rapporto ha con le materie prime?

“Il mio territorio esprime materie prime di valore assoluto. Ma sono io che le manipolo per ottenere ciò che voglio. La tecnica deve essere impiegata in modo rispettoso, per far emergere la verità”.

Tecnica e fantasia. Quanto contano l’una e l’altra nei suoi piatti?

“La tecnica è fondamentale, senza non vai da nessuna parte: un’improvvisazione ti fa realizzare magari un piatto straordinario, ma il giorno dopo farai una stupidaggine”.

Perché ha fatto lo chef?

“Quando avevo 14 anni e uscivo con i miei amici, le serate finivano a casa mia, e io a cucinare. Ero il più piccolo di cinque fratelli, trascorrevo molto tempo con mia mamma e mia nonna, che erano cuoche formidabili. Ero affascinato dal loro tirare la sfoglia o preparare la zucca. La passione per il cibo attraversava tutta la famiglia: mio padre ci portava in giro a provare ristoranti; mio fratello ci conduceva in pellegrinaggi per la Borgogna. Sin da bambino ho avuto un palato sintonizzato a un volume alto”.

Per fare lo chef bisogna saper volare, ha detto.

“Bisogna avere umiltà, capacità di concentrarsi, di non trasformare i gesti in routine. Se si perdono i sogni questo lavoro si riduce a un tagliare e a uno spadellare. Se si nutrono le passioni, i piatti ne saranno proiezioni emozionali. Ho il dovere di regalare emozioni a chi arriva a mangiare da me. Puoi solo se coltivi il senso della perfezione”.

La trasandatezza è un peccato mortale?

“Perfezione per me vuoi dire indossare il vestito giusto, guardarmi allo specchio la mattina e chiedermi quanto sono contento di fare questo lavoro, tenere i coltelli affilati, immaginare piatti nuovi: se mantieni il culto del sogno, i piatti hanno un’anima”.

Ha una brigata di sognatori?

“Un gruppo molto affiatato: Yoji Taka, Davide che è arrivato da me a 18 anni, Giuseppe che è in sala dal 1999. Cerco di lasciarli liberi di esprimersi. E credo nella miscela di culture: anche dagli scontri nascono scintille di novità”.

Il viaggio è una dimensione importante nella sua cucina. Perché?

“Perché è uno dei tratti più significativi della modernità: la possibilità di accedere a tecniche di cottura diverse, di esplorare ingredienti dall’altra parte del mondo, di confrontarsi. Quando viaggio tengo occhi e gusto aperti. Se fai avanguardia hai bisogno di spostarti da una parte all’altra. Ma devi saperti fermare: aprirti alle contaminazioni in modo saggio”.

La Francescana sarebbe replicabile altrove?

“Non con gli stessi sapori, ma con la stessa etica. Potrei realizzare piani che rispecchiano la mia filosofia, con altre materie prime però, e senza rinunciare a qualcosa che riporti alla mia storia”.

Vivere in provincia è un vantaggio o no?

“La provincia consente una crescita lenta e più matura. Rispetta i tuoi ritmi, insegna quelli della terra. Sì, lo è”.

Ha l’ossessione di come tradurre in piatti storie. L’immagine di un sottobosco dopo una nevicata, per esempio. Con questa idea ha rivisitato un piatto classico come la lumaca bourguignon. Perché dovremmo desiderare di assaggiare la terra? O lei sopravvaluta il nostro palato o i suoi sono piatti per la mente.

“Io voglio sfamare la mente. Cerco di tradurre impressioni in concetti culinari. Quanto agli ingredienti che uso, sento il piatto con questa complessità necessaria. Ogni sapore va al suo posto, rende la mineralità della terra, il mondo inesplorato, la coltre di neve”.

E lei di cosa si nutre?

“Di musica, di jazz, che amo molto, perché è una disciplina tecnica, di grande improvvisazione; di country rock anni Sessanta, di Bob Dylan e dei Boppers anni Quaranta.
di arte: Emilio Mazzoli, gallerista di Modena, mi dà la possibilità di farlo”.

A Thelonius Monk ha dedicato un Omaggio. Un merluzzo nero e croccante, con una potente crosta di alghe e ricci di mare polverizzati.

“Quel piatto è una miscela di elementi che arrivano da tutto il mondo. Il monocromo toglie il senso della vita: come se il cuoco spegnesse la luce, per far vivere l’esperienza solo al palato. Monk è un artista che mi affascina anche perché ha cercato per tutta la vita i suoi avi: il suono delle radici”.

Bottura, ma non è che lei anziché cercare le radici del passato cerca quelle del futuro? Solo, ha pudore ad ammetterlo?

“Io sento la sfida della cucina contemporanea, che non può più essere affrontata dicendo “mi piace-non mi piace”: sarebbe come giudicare l’arte contemporanea con queste due categorie e basta. Credo però che guardarsi indietro, rivalutare l’italianità, ci renda unici e irripetibili”.

Parla di senso creativo, di urgenza dell’opera. Ma si sente un’artista?

“No, io sono un cuoco. Ma penso che se non avessi fatto lo chef la mia vita sarebbe comunque stata legata all’arte”.

Come si manifesta questa forza creativa? Ha versioni beta, di prova, dei suoi piatti?

“Succede che mi ritrovo a riflettere sulle stagioni, sui colori, su uno stato d’animo. E queste sensazioni vagano intorno a me in modo insistente fino a quando, di colpo, non diventano chiare. Allora trovo il modo per esprimerle. Ed è definitivo”.

Ferran Adrià è definito il Salvator Dalì dei fornelli, Pierre Hermè il Picasso della pasticceria. Lei?

“Arno Joseph Beuyce, le sue opere che si trasformano, si disidratano, si sciolgono. L’idea che la natura delle sculture non sia fissa mi affascina. Anche i miei piatti sono in evoluzione: diversi sono gli ingredienti, diverso sono io. E sono io a dare il tempo alle cose”.

Questo è Borges...

“Le confesso che l’Omaggio a Monk nasce da un racconto di Borges, la storia di un cuoco che preparava piatti multicolori e strabilianti. Un giorno bendò i commensali: per fargli perdere il senso della vista, e dargli quello del gusto”.

C’è un’estetica fuori dall’ordinario nella sua cucina.

“Sono affascinato dalle geometrie e dal costruttivismo russo. Dal controllo e dalla regolarità di de Chirico. il mio bollito non bollito è cubismo temporale. Ma l’estetica non è fine a se stessa. L’etica è la cosa più importante”.

I nomi dei suoi piatti sono molto evocativi: “Ricordo di un panino alla mortadella”, “Compressione di pasta e fagioli”, Cinque stagionature di Parmigiano reggiano”, la “Patata in attesa di diventare tartufo”. Lei è sempre così cerebrale?

“Se non voglio pensare mangio junk food”.

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