Con Beppe Severgnini, vice direttore ed editorialista del “Corriere della Sera”, per il quale ha creato il blog e la rubrica “Italians”, autore di numerosi best sellers, fine e attento osservatore dell’Italia e degli italiani, WineNews ha parlato di cibo e di vino, in quanto nostre passioni, e valori alla base della nostra identità nel mondo, come spiega Severgnini nel suo ultimo volume “Italian Lessons. Fifty things we know about life now”, in uscita a marzo in Usa, quando in Italia arriverà nelle librerie “Un italiano”, il libro in cui il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, il generale Francesco Paolo Figliuolo, dialoga con Severgnini. Ma soprattutto con uno dei più importanti giornalisti italiani, abbiamo parlato di enogastronomia in quanto professione, lontano dal sogno di molti giovani di diventare un “MasterChef” o un foodblogger, e più vicino alla realtà ed al duro lavoro di cuoco, se solo si pensa anche alla crisi della ristorazione dovuta alla pandemia. E forse, riflettendo con Severgnini, anche il mondo della comunicazione, pur raccontando i successi del settore, dovrebbe tornare ad avere i piedi per terra.
“In Italia ci sono troppi chef e pochi cuochi”: perché questa affermazione di Arrigo Cipriani, che il patron dell’Harry’s Bar ha detto al collega Aldo Cazzullo ti ha colpito tanto da riportarla in “Italians”?
“Perché contiene una verità che va al di là del mondo della cucina. Lo intervistai molti anni fa, nel 1997, per la Rai, ed è uno spirito indipendente ed una persona originale, che dice cose giuste, altre no come la sua apertura di credito verso Trump, ma non le dice per compiacere gli altri. Ho un figlio di 29 anni che già da qualche anno ha scelto il mestiere di ristoratore, ma è anche un imprenditore agricolo su una nostra proprietà. Ha scelto un bravo cuoco e un bravo sommelier puntando sul vino, perché, dice, la sua generazione è interessata, ma c’è un sistema in Italia per cui i costi per il personale sono spropositati, e il continuo stop & go purtroppo necessario è stato pesante in questi “anni infernali” come li ho chiamati sul “Corriere”. Ma per molti la cucina è vedere i programmi televisivi da “MasterChef” in giù con i loro personaggi, invece che considerare il lavoro che c’è dietro. Ogni lavoro e ogni talento sono accompagnati da grande fatica e molto sudore. Lo stesso vale per il vostro mondo del vino: di fronte ad una bottiglia con la sua etichetta in un’occasione pubblica, sembra tutto facile e bello, ma, a partire dalla cura delle vigne, dietro c’è una valanga di lavoro silenzioso. E invece in Italia, in tutti campi, si corre il rischio che passi l’idea che al successo si arrivi attraverso un colpo di fortuna o un’idea geniale sui social, dietro ai quali serve comunque un lavoro di qualità, mentre pensare che siano una scorciatoia è pericoloso”.
Il fatto è che la cucina è e resta un mestiere duro e impegnativo, ma questo non traspare da un “MasterChef” o dal mondo dei foodblogger. E invece dovrebbe secondo te?
“Dovrebbe di più, perché leggere che la maggior parte dei vincitori di “MasterChef” non lavora nella ristorazione, ma prova a fare il blogger o l’influencer, dice tutto. Così come è indicativa la difficoltà di trovare bravi cuochi”.
In effetti, è vero: in Italia è difficile trovare persino un pizzaiolo, se non fosse molto spesso per gli stranieri che imparano a cucinare le nostre ricette. Come siamo arrivati a questo punto?
“I motivi sono molti: il primo è che certe professioni non erano socialmente appetibili e lavorare in cucina veniva considerato un ripiego per chi non aveva voglia di fare niente o di studiare, pensando che se gli andava bene da cameriere poteva diventare addirittura caposala o maître. Sbagliatissimo, perché sono lavori importanti e di grande soddisfazione, e infatti oggi non c’è più questa idea, anche grazie alla televisione e al fatto che cibo e vino siano diventati di moda, che non ha solo aspetti negativi, ma dà gratificazione a chi ci lavora. E questo è molto buono e sano perché lavorare in un ristorante non è più meno prestigioso di stare in ufficio dalle 9 alle 5 con la cravattina, anzi qualcuno farebbe volentieri a cambio. Un altro motivo è dovuto al fatto che la parte economica e retributiva, dei compensi, dei salari e dei contributi del mondo della cucina, vive su una grossa ipocrisia. Per molta parte della ristorazione il nero è diventato un modello di business, e molti lo fanno perché costretti. Il super classico è che ne assumi uno e ne fai lavorare altri dieci a chiamata, ne paghi uno e gli altri nove lo fai al nero. Questo sistema è ubiquo in Italia, e noi facciamo gli ipocriti e fingiamo di non vederlo. Quei ragazzi non avranno mai la pensione, e per un bravo datore di lavoro che è completamente in regola è un bagno di sangue. Negli ultimi anni, ma non solo, abbiamo visto quanto il sistema della ristorazione sia vulnerabile e occorrerebbe l’onesta di dire che dobbiamo rivedere tutto quanto, perché è una parte fondamentale dello stare insieme, e nel nostro Paese andare al ristorante non è una cosa da tempo libero, è uno dei pilastri della vita italiana”.
Anche per questo il mondo degli chef stellati, dei ristoranti da sogno e dei talent show di cucina in tv, è troppo lontano da noi comuni normali a cui semplicemente piace mangiare bene?
“Gli chef hanno colorato le nostre vite e questo gli va riconosciuto. All’inizio degli anni Duemila al “Corriere della Sera”, dove ero da qualche anno, io che non sono altro che un appassionato e di cucina so pochissimo e di vino so poco, e per il mestiere che faccio è 40 anni che mangio fuori ma se mi dai una bistecca con un’aranciata per te sono guai - e questo mi piace un casino dirlo quando sono all’estero - dissi che la cucina sarebbe diventata di moda e chiesi di intervistare 10 chef in giro per l’Italia da 10 fino a 100 euro, come era all’epoca un Cracco da giovane. Passai del tempo con loro, e finirono sulle pagine di cronaca del “Corriere”. Gli amici di “Cook” hanno fatto delle ricerche e mi hanno detto che forse è stata la prima volta che il quotidiano dedicava questa attenzione al settore grazie ad uno che non era del mestiere ma aveva intuito che questo sarebbe stato il grande tema di inizio secolo. Sono un allievo di Montanelli, e con lui le discussioni sul cibo era sempre accese. Una volta misi il sale sulla ricotta, e per poco non mi licenziò. Montanelli, Buzzati, Soldati: i grandi giornalisti hanno sempre capito che dalla tavola e dal vino passano tante cose. Soldati era anche un praticante, Buzzati ha scritto pagine bellissime sul cibo a Milano, dalle trattorie ai ristoranti cinesi, e Montanelli stesso fece una grande disfida tra la fiorentina e il risotto milanese. Anni fa io ho lanciato la sfida a Mantova tra i Tortelli dolci cremaschi e i Tortelli di zucca mantovani: venne fuori una cosa in grande con tanto di televisioni. Il cibo è vita delle persone”.
In effetti spesso ce lo chiediamo anche i noi, che cosa avrebbero detto i maestri del giornalismo italiano di questo spentolare sempre e ovunque, reale e virtuale, e il fatto che la democrazia del web permetta a tutti di diventare anche esperti di cucina: fa davvero bene al settore?
“Stabilito che tutto questo è un fenomeno secondo me abbiamo già passato il crinale e siamo nella fase discendente, per cui è destinato a decrescere non a crescere. Per tanti motivi come dicevo, e perché in qualche caso la qualità e il prezzo si sono allontanati troppo e certe cifre per una cena non tutti possono permettersele soprattutto di questi tempi. E se prima c’era qualche chef super star televisivo, ora il gioco sta diventando fin troppo ovvio e viene da chiedere quando abbiano il tempo di cucinare ed imparare. È come quando vedo i virologi perennemente in televisione e mi chiedo quando riescano a vedere i pazienti, o gli storici dell’arte che parlano di tutto e mi domando se hanno ancora tempo di studiare. È successo anni fa anche agli stilisti che hanno fatto grande il nome dell’Italia all’estero: c’è stato uno scollamento tra i prodotti e il prezzo, nel quale si sono infilati marchi come H&M o Zara. Lo stesso sta accadendo per la cucina, dove professionisti seri che fanno cose interessanti con un buon rapporto qualità-prezzo stanno aumentando moltissimo. Gli influencer del cibo non ne seguo neanche uno e non ci credo molto dico la verità. Esiste una sorta di inevitabilità delle cose e certi fenomeni tendono ad aggiustarsi da soli. Tra un bravo cuoco che fa dei piatti veramente buoni, cura le materie prime, l’abbinamento con i vini e l’ambiente, passa del tempo con i loro clienti e sta attento ai loro bisogni, ha una bella cantina e mi offre due ore felici, e chi fa il brillante sui social facendo la foto ai piatti, non ho dubbi, scelgo il primo”.
Tutti dicono che siamo diventati più sensibili a temi come la difesa della biodiversità, la sostenibilità ambientale e l’attenzione al cibo etico, soprattutto in conseguenza della pandemia che ci ha fatto rivedere il nostro stile di vita, le nostre scelte di consumo e le nostre abitudini alimentari: è così?
“Forse un cambiamento in meglio c’è stato, c’è un’attenzione maggiore, a partire dai vignaioli e nell’agricoltura in genere. Vengo da una famiglia di agricoltori e ricordo i tempi in cui era meglio non chiedersi cosa mangiavi, come negli anni Sessanta con la trasformazione dell’industria alimentare. C’è però il rischio della retorica, che è un rischio molto italiano e che va ben al di là del mondo del cibo, del vino, dell’agricoltura e della sostenibilità. Volete fare una prova? Uscite per strada e chiedete a qualcuno di darvi una definizione di sostenibilità: secondo me vi risponde 1 su 30 - forse - perché è una parola serissima, ma che è diventata un “passepartout” per sentirsi a posto e di aver pagato pegno, ed è trattata in maniera modaiola. Basta aggiungere il green o il bio”.
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