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La Nazione / Il Giorno / Il Resto Del Carlino

La provocazione di Edoardo Raspelli - Vecchio buon vino, "ubriacato" da soldi e cantori ... Franco Tommaso Marchi, fondatore e principe dei sommelier italiani, alzava il bicchiere d'assaggio; lo traguardava con i suoi occhi acuti; faceva roteare brevemente semplicemente naturalmente le due dita di vino; lo annusava; lo sorseggiava e ne parlava. Era il linguaggio della semplicità, della chiarezza: un linguaggio come quello che mi avevano insegnato di riportare sulle colonne del mio Corriere d'Informazione, Giovanni Raimondi, Franco Damerini, Cesare Lanza, Mario Perazzi: parlare e scrivere semplice. L'arte del sommelier «Se scrivi facile ti fai capire dal prefetto e dalla sua cameriera. Se scrivi difficile ti comprende solo il prefetto: secondo te, è meglio essere letti da due persone o da una persona sola?». Marchi mi istruiva sul vino come i miei maestri di giornalismo. Era il 1975: in quell'appartamentone milanese di via Cesare Correnti 1, al Carrobbio, sede dell'Associazione Italiana Sommelier, diretta dagli eroi e dai pionieri disinteressati dell'enologia italiana, il linguaggio era fatto di chiarezza: equilibrio, morbidezza, la conservabilità di un vino, la tannicità che legava la bocca, freschezza, secchezza, amabilità ... Il sommelier non era un guru ma un cameriere specializzato che conosceva le bottiglie della sua cantina, che sapeva consigliarle al cliente, che ne valutava i pregi ed i prezzi e che, soprattutto, aveva come scopo, in quella categoria di mercato, di far bere bene, al meglio, in particolare accostando quel vino, quelle bottiglie a quei dati piatti ... Era la filosofia che avrebbe conquistato il pubblico. Così, come Franco Tommaso Marchi, come Franco Colombani (l'indimenticato oste del Sole di Maleo), come Gianluigi Morini del San Domenico di Imola, parlavano i loro allievi: Itala Brovelli del Sole di Ranco, Ezio Santin dell'Antica Osteria del Ponte, il sommo Giuseppe Vaccarini, neo campione mondiale dei sommelier, Beppe Biggica, del Berti di Milano, Giorgio Pinchiorri dell'Enoteca di Firenze ... Negli Anni Settanta i sommelier italiani andavano in California a vedere la curiosità di quei pazzi di americani che volevano fabbricare il vino. La Francia portava negli USA i grandi Chateaux, i sommi Champagne, noi ci gloriavamo dei milioni di ettolitri di Lambrusco delle Cantine Riunite ... I fischi di Chianti dal lunghissimo collo vitreo e folcloristico occhieggiavano nei ristoranti di Little Italy, alla fioca luce del lumino acceso davanti al quadretto della Madonna con Gesù. Il vino era in cima ai miei pensieri gastronomici. Alla Certosa di Pavia, accanto a sommi «anziani» come Riccardo Riccardi e Piero Bolfo,promuovevo e bocciavo i vini lombardi dell'Enoteca Regionale; ad Alghero o Castrocaro Terme approvavo o respingevo gli aspiranti nuovi sommelier. Poi, il boom e la crisi. Già mi sorprendeva il fatto che nelle commissioni d'assaggio venissero eliminati i punteggi estremi dati a quel dato vino: si ammetteva, esplicitamente, che quella data bottiglia per un esperto potesse essere meravigliosa e per un altro, altrettanto esperto, una schifezza. La critica è soggettiva, certo, ma se Gualtiero Marchesi a me, a Marco Gatti ed al tavolo a fianco, il 19 giugno 1999, la notte del mio 50° compleanno, dà un pesce grigio e che puzza, c'è poco da essere soggettivi ... Insomma, mi sono scostato dal vino, anche perchè diventava un affare economico, un business sempre più pesante:giornalisti che giudicano i vini e che ne accettano la pubblicità a pagamento sulle loro riviste o sulle loro guide; pubblicisti libertari che inneggiano all'impiego del legno per l'invecchiamento dei vini bianchi e che poi fanno sì che le loro compagne vendano, allo stesso recapito telefonico, le medesime botticelle ... Il linguaggio, poi, si è involuto fino a diventare ridicolo, incomprensibile, aristocratico fino ad essere capito solo da chi scriveva. Veronelli, parlando di una riserva di champagne Krug, vi trovava dello sperma, non tanto l'odore quanto, addirittura, il sapore ... Il marchesino de Gresy, produttore di Langa, davanti ad un pezzo sul L'Espresso scritto dal pubblicista bergamasco, ne era molto contento «anche se non ho capito niente» mi disse. Chiarezza e folklore Oggi, contemporaneamente al boom qualitativo della produzione vinicola di casa nostra, contemporaneamente alla crescita dell'interesse della gente, è caduta a precipizio la validità della comunicazione, più esattamente il suo linguaggio. Certo, non condivido il populismo critico di un Antonio Albanese: non tutto è folclore, non tutti i linguaggi sono terrificanti, ma certo la chiarezza di un tempo è solo un ricordo. Ce lo rammenta tutti i mesi una rivista divulgativa come Il Mio Vino che dedica una bellissima rubrica, «Il carciofino», allo stupidario dell'enocritica (e nel tritacarne finisce, ogni tanto, anche lo stesso giornale). (arretrato de "La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino" del 22 agosto 2003)

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