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La Nazione

Antinori, quel profumo di Chianti “Un rivolo di vino lungo la mia vita” ... Il marchese Piero racconta i sei secoli delle vigne di famiglia ... Esce oggi in Libreria “Il profumo del Chianti. Storia di una famigLia di vinattieri” di Piero Antinori edito da Mondadori. Pubblichiamo un ampio brano per gentile concessione dell’editore ... Gli Antinori sono stati commercianti di seta e lana, banchieri, diplomatici e artisti, studiosi e guerrieri. Ma sullo sfondo delle loro esistenze c’è sempre stato il succo dell’uva. Che dalla metà del Cinquecento diventa una delle loro attività principali. Penso ad Alessandro di Niccolò, finanziere del XVI secolo, che prestava denaro ai re francesi, vendeva grano e seta, e giunse a chiedere il supporto del granduca Cosimo de’ Medici a proposito di un carico di malvasia requisito a Messina per ragioni belliche. O a Filippo Antinori, che tentò di entrare nel mercato del vino al minuto nello Stato della Chiesa. O agli Antinori del Settecento e dell’Ottocento, che, fra l’altro, sconfissero la fillossera e iniziarono a produrre i migliori vini di Toscana. Cantati da poeti e cortigiani. Provo a riflettere sulla mia, di storia. Come accade nella mia famiglia, il vino è un rivolo rosso che scorre lungo tutto il sentiero della mia vita, legando il me stesso bambino all’uomo di oggi. Ho iniziato ad assaggiarlo che avevo cinque o sei anni. Un qualche Chianti senza nome. Vino diluito con un po’ d’acqua, come si usava per i più piccoli, nei giorni di festa. Una sorta di iniziazione da cui allora passavano tutti i bambini toscani. Così come, allora, non c’era dessert più ambito dai ragazzini del pane inumidito divino rosso e spolverato di zucchero. Fin da quei lontani momenti il vino si legò nella mia sensibilità a tutto ciò che di piacevole c’è nella vita. Ancora prima, forse, avevo imparato a riconoscere l’odore delle nostre uve rosse. Uva Sangiovese dai grappoli neri, fitti e pesanti. che di lì a poco avrebbe prodotto tutti i grandi rossi toscani. Un’uva già coltivata, amata e cantata dai romani e, prima ancora, dagli etruschi. Acini di stirpe divina. Il nome, antichissimo, non ha niente a che vedere con i santi del calendario cristiano: viene dal latino sanguis Jovis, il sangue di Giove, padre degli dei. A ottobre l’aroma del Sangiovese esplodeva in tutte le nostre campagne. Era nelle vigne, nei campi, fra le colline dove andavo a caccia con mio padre. Lui amava cacciare con i suoi cani, partendo all’alba in compagnia di amici, con grosse ceste di cose buone da mangiare e da bere. Allora, agli inizi di ottobre, era una cerimonia di famiglia il fermarsi ad assaggiarla cogliendola direttamente dai tralci, la nostra uva matura e dolce. Poi, un mattino della fine del luglio 1944 (ho appena compiuto sei anni) eravamo discesi in bicicletta da Montefiridolfi verso la tenuta chiantigiana di Santa Cristina a Tignanello. Mio padre ricevette una telefonata allarmata da San Casciano Val di Pesa. Lì, dal 1898, sorgevano le nostre cantine. Quelle che Piero e Lodovico Antinori avevano pensato come cuore della moderna azienda per radunare le attività famigliari legate al vino che, nei secoli, si erano fatte disperse e disordinate. Nel loro fresco buio mio nonno e mio padre avevano sperimentato per anni nuovi metodi di vinificazione e di invecchiamento dei vini. Riusciamo a recuperare un vecchio calesse e un paio di cavalli. Ci precipitiamo e, già a un chilometro dalla meta, sentiamo che l’aria è tutta impregnata di odore di vino e di mosto. In quei giorni la mia terra sperimentava gli ultimi e convulsi strascichi della guerra. Sotto l’incalzare degli Alleati, che sarebbero entrati in San Casciano dopo averla a lungo cannoneggiata e due volte bombardata, i tedeschi si ritiravano in disordine. Erano tempi terribili per la Toscana. Ovunque i segni della devastazione e del saccheggio ferivano il paesaggio del Chianti. Molti edifici erano stati fatti saltare con l’esplosivo, la campagna era disseminata di mine e rottami. Ricordo che, quando la tempesta finalmente passò, qualcuno calcolò che oltre la metà degli edifici del comprensorio comunale risultavano distrutti o danneggiati. Vuoi per le bombe alleate, vuoi per la furia dei tedeschi sconfitti e braccati. E non solo le case, ma anche campanili, chiese, castelli, siti medievali. E, appunto, la nostra villa di famiglia, che aveva l’unica colpa di sorgere vicino a una centrale elettrica. Obiettivo militare. Nelle Cantine di San Casciano - la gente del posto le chiama ancora oggi, semplicemente, “le Cantine” - i tedeschi, a caccia di uomini e viveri, avevano trovato botti di Chianti Classico e pareti intere di bottiglie impilate a invecchiare, indifese e ignare di guerre e armistizi. Non avendo tempo di godersele né mezzi sufficienti a portarsele in Germania, i soldati avevano scelto di prenderle, botti e bottiglie, a raffiche di mitra.

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