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La Repubblica / Affari & Finanza

I brand San Daniele e Brunello gli Armani del lusso in tavola ... Mai come in questi ultimi anni la marca ha avuto tanta importanza. Pensare che fino all’inizio del secolo scorso il marchio era qualcosa che serviva solo a distinguere la proprietà dei capi di bestiame (l’etimo infatti è quello di "marchiatura"), per proteggere gli allevatori dai furti: e solo a partire dagli anni venti ha iniziato ad essere utilizzato come leva importante del marketing. E questo è avvenuto quando ci è resi conto che, in molti settori merceologici, non era così facile distinguere in modo oggettivo l’offerta di un produttore da quella di un concorrente, e quindi occorreva qualcosa che creasse una preferenza da parte del consumatore. Un vantaggio competitivo basato su aspetti prevalentemente intangibili, come una maggiore affidabilità del prodotto o una garanzia di qualità. Oggi la marca (più spesso chiamata col termine inglese brand) è portatrice di attributi di diversa natura - estetici, culturali ed etici - e, in molti mercati, rappresenta il vero capitale su cui si basano i risultati economici delle aziende. Infatti, se ben tutelata, è l’unica risorsa non acquisibile dai concorrenti.
Dopo quasi un secolo - e dopo essersi sviluppata enormemente nel settore industriale e dei servizi - la marca sta riacquisendo importanza anche in agricoltura, con un ruolo ben più strategico di quello originario. Una buona spinta la sta dando l’evoluzione della normativa sviluppata dal Wto (World Trade Organization) e, soprattutto, la sua interpretazione che tende ad abbassare (su pressione dei paesi extraeuropei) la tutela dei cosiddetti nomi "tradizionali". Per esempio, nel settore vitivinicolo, parole tipo "morellino", "vin santo" o "brunello" non essendo riferiti ad uno specifico luogo - come invece lo sono "Chianti", "Barolo" o "Champagne" - non vengono protetti con la stessa forza. E rischiano quindi la stessa sorte dei vitigni (come "sangiovese" o "cabernet"), che non fanno riferimento a un territorio e possono quindi essere prodotti e venduti ovunque.

«Già nel ‘92 ci accorgemmo che in California gli americani producevano un vino denominato "brunello", e questo ci ha spinto a correre immediatamente ai ripari. La soluzione che trovammo allora fu quella di registrare il marchio, esattamente come lo avrebbe fatto una qualsiasi azienda industriale per proteggersi dalle imitazioni", racconta Stefano Campatelli, direttore del consorzio Brunello di Montalcino. Dopo dieci anni, questa procedura, piuttosto anomala per il settore agricolo, si è dimostrata vincente; tanto che oggi il consorzio ha già registrato in 60 paesi il marchio "Brunello".
«Se all’inizio ci eravamo preoccupati soprattutto di tutelarci presso i paesi produttori, oggi abbiamo deciso di difenderci in tutti i mercati - aggiunge Campatelli - d’altronde, l’origine territoriale e la specificità del prodotto sono le nostre principali risorse strategiche: non possiamo rischiare di perderle. Non è un caso, quindi, se su questa nostra strada stanno iniziando a muoversi diversi altri consorzi del settore agroalimentare».

«La procedura di registrazione legale del marchio è senz’altro utile e in molti casi necessaria, ma non è detto che sia la soluzione adatta per tutti nostri produttori: comunque sia, richiede un certo investimento, sia economico che organizzativo, che forse non è alla portata delle aziende minori», commenta Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti. «E, tra l’altro, c’è anche il rischio che alcuni nomi siano già stati registrati all’estero da qualche impresa locale. Così come è successo in certi paesi per il prosciutto San Daniele e per il Parmigiano». La strada maestra rimane quindi quella degli accordi globali tra Stati, impegnati nel riconoscere la proprietà intellettuale e, per quanto riguarda la produzione agricola, a difendere e valorizzare le produzioni legate a un territorio d’origine.
«In questa ottica c’è da augurasi che nell’ambito dell’attuale negoziato in seno al Wto, l’Italia riesca a far capire al resto d’Europa il carattere strategico di questa battaglia, e la conseguente opportunità di concentrare su di essa la propria forza negoziale, anziché attardarsi nella tradizionale difesa del vecchio protezionismo agricolo», conferma Fabrizio de Filippis dell’Università Roma Tre, esperto di politiche agricole e negoziati internazionali.

La difesa dei nomi tradizionali, oltretutto, è un modo per evitare che, anche in agricoltura, la delocalizzazione della produzione, finalizzata alla riduzione dei costi, possa danneggiare le aziende locali. «Aggiungerei - sottolinea Bazzana - che qui non si tratta solo di proteggere i produttori e i trasformatori, ma anche i consumatori, che potrebbero essere indotti, inconsapevolmente, a pagare un sovrapprezzo per acquistare prodotti imitativi che non garantiscono affatto gli stessi attributi degli originali, ma solo una qualche assonanza nel nome». E’ il caso di prodotti come il formaggio "Cambozola" venduto in Germania e Austria (dove scimmiotta il nostrano Gorgonzola), il "Parmesan" o il "Reggianito" sudamericano.

Val la pena anche di sottolineare che, a differenza di quanto avviene nel mondo industriale dove il valore del marchio si basa unicamente sulla reputazione del produttore, in agricoltura con l’indicazione dell’origine si comunica anche il rispetto di un disciplinare di produzione che può essere anche molto rigoroso come nel caso, per esempio, delle Dop (Denominazioni di origine protetta). E questo, evidentemente, rappresenta per il consumatore un informazione aggiuntiva di particolare rilevanza e una garanzia sul rispetto di alcune norme importanti nel processo di produzione.

Carlo Alberto Pratesi - Università Roma Tre

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