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La Repubblica / Affari&finanza

Il vino e il gusto della globalizzazione ... C’è in Europa un mercato che gli analisti considerano strategico, quello britannico, che promette una spesa procapite tra le più alte che inizia a condizionare la domanda. Prodotti con meno alcol e più attenti alle tematiche salutiste e ambientaliste. Le valutazioni dei produttori italiani... Basta con l’alcol, in futuro venderemo solo vini con non più di 12 gradi. L’annuncio fatto da Marks & Spencer, la più grande catena di supermercati inglesi di abbigliamento e cibo, è rimbalzata in tutto il mondo attraverso la newsletter di Decanter, bibbia dell’enologia internazionale. Su Internet s’è scatenato subito un acceso dibattito. Ma quale impatto può avere questa decisione sul mercato? La catena M&S è di quelle che fanno tendenza e Londra, oltre che una delle principali piazze finanziarie, è anche una delle capitali degli stili di vita. Ci sarà anche stavolta l’effetto “minigonna”, ovvero la ricaduta sugli altri paesi di una nuova moda, quella dei vini “superleggeri”?
“Sono stupito, questa decisione mi lascia molti dubbi, penso che cambieranno presto idea”, afferma Leonardo Frescobaldi, vicepresidente nonché responsabile commerciale della Marchesi de’ Frescobaldi, storici produttori di vino, un brand di casa Oltremanica, visto che alla tavola di sua Maestà si pasteggia con i vini e l’olio della nobile casata toscana, l’unica italiana invitata al matrimonio tra Carlo e Camilla. Spiega Frescobaldi: “La Gran Bretagna è un mercato storico, dove il vino ha una grande tradizione. Valutare il vino come una bevanda di cui misurare l’alcol, il fatto di limitarla a dodici gradi è andare nel verso esattamente opposto a quello che avviene in quel paese, dove hanno avuto negli ultimi dieci anni un enorme successo i vini australiani, per loro natura di alta gradazione, tra i 13 e i 14 gradi. Se è una misura per limitare l’abuso di alcool, non è una soluzione. La soluzione è bere meno, casomai”.
Una recente ricerca diffusa di Iwsr, International Wine Spirit and Record, una delle più importanti società di ricerca del settore con base a Londra, dice che i sudditi della regina Elisabetta entro il 2010 spenderanno in vino più di qualsiasi altro cittadino europeo. Dai portafogli britannici usciranno 5,5 milioni di sterline e la Gran Bretagna sarà il primo mercato vinicolo del Vecchio continente. Fra il 2001 e il 2005 le vendite di vino al dettaglio sono cresciute del 25% raggiungendo quota 4,9 miliardi. Due i fattori che porteranno a questi risultati: un maggiore consumo di vino e un aumento del prezzo medio a bottiglia, che in generale è superiore alla maggior parte dei paesi europei. Il consumo di vino dovrebbe crescere del 3,7% fra il 2001 e il 2010, cioè 3,5 volte più rapidamente che a livello mondiale. I numeri dicono che la Gran Bretagna acquisterà un peso determinante nell’influenzare l’orientamento del mercato. Ma quello che emerge è una impennata di importazioni dall’Australia, cresciute del 51,7%. Sono inoltre più che raddoppiate quelle dagli Stati Uniti e sono cresciute del 50% quelle dal Sud Africa.
Gli inglesi, è vero, continueranno a bere meno vino di francesi, italiani, statunitensi e tedeschi, dicono le rilevazioni Iwsr. E i consumi si stanno gradualmente spostando verso altri, grandi mercati emergenti, come Russia, Cina e India. Ma l’impennata di importazioni inglesi farà sentire il suo peso sulla bilancia mondiale, se non altro in fatto di nuovi gusti. Una qualche reticenza di fronte a vini troppo impegnativi, troppo pesanti, si è registrata negli ultimi anni. L’incremento di vendite di bollicine, sia di champagne che di spumanti italiani, rilevato negli ultimi anni è stato letto dagli esperti come una voglia di “bere facile”, di bere più leggero. Ma un conto sono le bollicine, un conto i vini fermi, soprattutto i rossi.
“Gli inglesi, abituati a bere birra, dal basso impatto alcolico, sono tendono ad attribuire un impatto alcolico maggiore di quello reale. Ma è indubbio che i vini a maggiore gradazione sono più profumati, hanno più gusto. Certo, esistono prodotti troppo concentrati, che sono però il frutto di vigne non equilibrate. Bisogna dunque fare una distinzione tra prodotti equilibrati e vini che non lo sono”, commenta Ferruccio Ferragamo, grande marchio del lusso Made in Italy, che produce Il Borro, vino della tenuta toscana che ha superato i 90 punti di Wine Spectator, rivista americana in grado di orientare il mercato mondiale. Vini, rossi, che fanno 14 gradi. Fa 14 gradi anche il Tenuta Nuova di Casanova di Neri, il Brunello classificato primo vino al mondo sempre da Wine Spectator. Come si spiegano questi segnali contrastanti?
“E’ la schizofrenia del mercato”, taglia corto Marco Caprai, inventore del Sagrantino di Montefalco, vitigno attorno al quale è nata e ruota l’economia di un territorio. “Da una parte abbiamo gli agricoltori-industriali che fabbricano vini con trucioli e aggiunte varie, vini standard, tutti uguali; dall’altra ci sono i viticoltori che puntano alla qualità. Purtroppo i produttori italiani spingono ancora troppo verso la fascia medio-bassa. Invece è la fascia alta quella più promettente per il vino italiano che proprio sulla spinta della globalizzazione deve presentarsi con il suo valore aggiunto in termini d identità territoriale, di qualità fatta con un prodotto che ha una personalità”.
Vino buono, vino cattivo. Vino di qualità, vino standard. Vino caro, vino a portata di tutte le tasche. Il mercato non è uno solo. E da una parte bisogna anche fare i conti con le mode ipersalutistiche e ambientaliste. La catena M&S, premiata per il secondo anno di seguito per la capacità di anticipare i business e l’attenzione ai trend legati alla responsabilità sociale, si muove molto in questa direzione. Prima a lanciare sandwich confezionati con incarti ricavati da foreste gestite con criteri di economia sostenibile , dove per ogni albero tagliato ne vengono reimpiantati uno o più. Il più grande rivenditore al dettaglio di un’etichetta di vestiti in cotone del canale equo e sostenibile. Prodotti salutistici e biologici. Insomma, molto orientata verso le nuove generazioni.
“Hanno inventato la Coca Diet, ora pensano al vino senza alcool. Una bevanda di moda senza più le proprietà tipiche del vino. Un vino buono deve avere concentrazione e la concentrazione richiede alcool”, incalza Antonio Moretti, altra griffe del lusso, socio di Prada, con vigneti in Toscana e in Sicilia, ed etichette, come l’Oreno e il Crognolo ai vertici delle classifiche di Wine Spectator. La rockstar Madonna ha già fatto il salto: dalla sua tenuta di famiglia in America, ha lanciato un vino privo di alcool per festeggiare il record di Confessions on a Dancefloor. Mode. Salutistiche. O semplici mode. Che alla fine rischiano comunque di convergere verso altre mode, quelle di una certa filosofia di produzione, quello del vino Lego, come è stato ribattezzato il vino costruito in laboratorio: trucioli per accelerare l’invecchiamento, tannini in scatola per dare struttura. A Santa Rosa, in California, esiste un impianto gigantesco per togliere gli zuccheri al vino. Vino standardizzato. Tutto uguale.
Eppure gli Usa, che hanno lanciato la moda dei trucioli, patria dei legni del falegname, come sono stati ribattezzati, ha registrato un aumento dell’export del 30% lo scorso anno. Cosa può spingere il consumatore a prendere da uno scaffale una o l’altra etichetta? L’identità territoriale, la personalità. La qualità. E’ per questo che molti produttori preferiscono tuttora snobbare la grande distribuzione. Che pure fa il grosso del mercato. Ma, fatta eccezione per alcune catene, come Esselunga, non sempre quello di qualità. Tanto da aver spinto Angelo Gaja, il produttore piemontese che è diventato uno degli emblemi del vino italiano nel mondo, ad avanzare una provocatoria proposta: togliere la Docg, denominazione di origine controllata e garantita, a tutti i vini venduti regolarmente al supermercato sotto i 3 euro.

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