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La Repubblica / Affari&finanza

Lo champagne “sostenibile” ... Un piano di viticoltura verde in dieci anni ha rivoluzionato il territorio... “Vede, il confine tra i miei vigneti e quelli del vicino sono netti, il suo inizia lì, dal primo filare senza più erba in terra”, Jacques Beaufort, produttore dello champagne André Beaufort, divide: c’è chi lo ama senza riserve e chi non sopporta le sue bottiglie. Un pioniere della biodinamica, filosofia di coltivazione a cui è approdato per motivi di salute: “Stavo sempre male, ma quando mi sono fidanzato con quella che oggi è mia moglie, mi sono accorto che mangiando le mele che la sua famiglia produceva senza uso di pesticidi mi sentivo meglio”, racconta. E così, nel giro di diciotto mesi, ha abbandonato ogni prodotto chimico e da allora non si è più ammalato. Addirittura, cura con l’omeopatia le piante. Dalle sue tenute di Ambonnay e Polisy, nell’Aube, escono solo bollicine biodinamiche. La cantina sembra quella dei nostri nonni, e fa ancora il dégorgement à la volée, come una volta, tagliando via di colpo il deposito di lieviti sul collo della bottiglia. A mano, bottiglia dopo bottiglia, quando oggi le macchine ne fanno 810.000 all’ora. Ha una produzione limitata che si vende in diversi paesi del mondo, Italia compresa. Alza le spalle quando gli si chiede come venderà il Brut 2000, visto che Civc, il Comité Interprofessionnel du vin de champagne, l’ha bocciato per “insufficienza qualitativa”. Personaggio eccentrico, Beaufort ha spinto al limite estremo quel concetto di “viticoltura sostenibile” che proprio il Comité, che raccoglie vigneron e maison, le due grandi famiglie di produttori, sta cercando di realizzare. Il piano ha preso il via ben dieci anni fa.
“Abbiamo lavorato fianco a fianco con ogni produttore, la strategia è di prendere le migliori pratiche da ogni tecnica di conduzione: dalla biodinamica al biologico alla viticoltura sostenibile”, racconta Laurent Panigai, responsabile Viticoltura del Civc. E quando si dice la filiera, si intende tutto: persino gli impiegati che misurano il consumo dei pc, si spostano in treno o aereo a seconda della C02 prodotta.
I risultati: i rifiuti industriali sono riutilizzati al 75%, ma si punta al 100% per il 2020; l’uso dei pesticidi è sceso del 35% e quelli usati per la metà sono autorizzati dall’agricoltura biologica; i rifiuti liquidi delle vigne sono trattati al 92%, ma si vuole arrivare al 100% nel 2020, anno entro il quale la produzione della CO2 dovrebbe diminuire del 35%.
Tutelare il territorio, è questo l’obiettivo. E si parte dalle piccole cose. Come l’erba: “Il 35% del vigneto ha l’inerbimento permanente, per prevenire l’erosione dei suoli ed evitare l’uso di diserbanti”, racconta Antoine Chiquet, della cantina Gastone Chiquet, vigneron di Dizy dal 1746, oggi all’ottava generazione ventitré ettari di vigneto, a Chardonnay, Pinot Meuniere e Pinot Noir, per il 100% protetto dai parassiti con sistemi bio, metà con la cosiddetta confusione sessuale, metà con insetticidi ecologici. E come primo mercato di esportazione ha proprio l’Italia.
Viticoltura sostenibile anche in casa Deutz, marchio storico dello champagne, con 1,8 milioni di bottiglie prodotte, per il 40% vendute all’estero, e un giro d’affari di 60 milioni di euro. La maison ha 42 ettari di proprietà, il resto dell’approvvigionamento proviene da una trentina di piccoli viticoltori con cui hanno contratti e uve che provengono per l’80% da Grand Cru e Premiere Cru, il top di gamma:“La fertilizzazione si basa sul mantenimento volontario di un savoirfaire ancestrale racconta Arnauld Bro de Comères, da trenta anni gran cerimoniere di casa Deutz, all’ingresso della cantina che sembra concepita da un architetto moderno invece è quella di 170 anni fa, la stessa riprodotta nell’antica foto appesa alle pareti, con gallerie sotterranee che corrono per tre chilometri: “I concimi naturali utilizzati spiega assicurano lo sviluppo vegetativo della vigna. I programmi di fertilizzazione, studiati su misura per ogni appezzamento, dipendono anche dai fattori climatici che caratterizzano la primavera”.
Tanti piccoli paesini sparsi nei vigneti che ricoprono i 34.000 ettari dello champagne. Poi la strada entra a Reims, la capitale dello champagne insieme a Epernay. Su una grande curva campeggia l’insegna Bruno Paillard, un brand giovane tra tante etichette storiche, ma già un culto per gli appassionati di bollicine francesi di tutto il mondo. “Sono il fondatore, il proprietario e il naso”, racconta Bruno Paillard, classe 1953, mentre mostra i quadri appesi realizzati da famosi artisti, come Sandro Chia, per le etichette delle grandi annate. Una cantina rivoluzionaria, la sua, rispetto ai templi secolari come Krug o Roederer. Minimalismo nordico. Soffitti, cuvée in acciaio e pile di bottiglie: tutto si sviluppa verso l’alto, un gotico moderno che innalza al cielo lo champagne. I 26 ettari di proprietà sono al 100% bio, per la metà Grand Cru. Altri 50 ettari di approvvigionamento presso i viticoltori indipendenti in più di 30 villaggi: in tutto 500.000 bottigliem prodotte, appena poco più della meta delle 800.000 di potenziale: “La strategia qualitativa è di utilizzare solo le “premières presses””,racconta Paillard. Una strategia condivisa da Alice, la giovane figlia che oggi l’affianca nel business di famiglia. Non è la sola esponente di una nuova generazione di viticoltori. “Voglio piantare il prossimo anno nuovi vigneti “en foul” non allineati, come si faceva in passato, con l’obiettivo di ridurre ancora di più le rese da 6/8 grappoli a 23”, racconta pieno di entusiamo Alexandre Chartogne, 25 anni, ultima generazione della ChartogneTaillet di Merfy. Allievo di Selosse, altra griffe di champagne, vuole fare il definitivo salto nella biodinamica. Galosce di gomma, mani sporche di terra, ci mostra i filari pieni di erba: “Il 95% del lavoro è in vigna, solo il resto in cantina”, dice. E tra i filari stappa una delle sue bottiglie: non ha ancora l’etichetta, ma l’impronta è di sicuro il terroir .

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