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La Repubblica Delle Donne

Il vecchio armeno ha sempre ragione ... Quando, decenni or sono, fui travolto dalia mania dei tappeti cosiddetti caucasici, che in America costavano pochissimo perché la moquette soffice e pelosa li aveva espulsi dalle case, incontrai un vecchio mercante armeno, conosciuto da tutti a Washington soltanto come come il misterioso “Mister Manukian”. ’Con lui, novantenne bilioso e sgarbato, stabilimmo un curioso rapporto di simpatia. Nel suo neogozio sempre nebbioso per il pulviscolo degli stracci che srotolava, gli raccontavo barzellette antirusse, che lui adorava odiando i russi come tutti gli armeni. Lui in cambio mi iniziava ai misteri dei nodi, dei colori, dei disegni tribali e del le truffe dei tappetari. Non comperavo quasi mai niente e lui lo sapeva. E quando finalmente decisi di acquistare qualcosa, e gli chiesi quale delle mie scelte finali fosse la migliore, mi rispose cosi: “II tappeto più prezioso è quello che ti piace di più”.
La “Legge del Vecchio Armeno” mi è tornata davanti agli occhi leggendo di un esperimento malizioso condotto da una pubblicazione americana. Wired, con il massimo esperto di vini, Robert Parker, che per anni ha assaggiato, giudicato e condannato i prodotti con punteggi precisi e implacabili. Parker accettò di farsi bendare gli occhi e di valutare diverse bottiglie, e annate, e vini alla cieca. Il risultato fu disastroso. Al buio, il superesperto sbagliò clamorosamente la natura delle bevande che assaporava, arrivando a classificare come “il migliore” quello stesso che, non molto prima, ma a occhi aperti, aveva giudicato “il peggiore”, confondendo Bordeaux di gran cru con vinelli ordinar. Sono cosciente che scrivendo questa puntata di Hotel America mi inimicherò anche una delle poche categorie di persone che nella mia vita di giornalista ancora non avevo offeso, vale a dire i produttori, i conoscitori e i sommelier, ma in questo scherzaccio ho sentito il brivido di una piccola vendetta. La rivincita di tutti coloro che, come me, non sono mai riusciti a avvertire, anche nel vino più celebrato, quella sinfonia di bacche, mirtilli, noci, cioccolato, more, susine.
legnami, fiori, sole e mare, con retrogusto prolungato di venti della Loira, che le riviste specializzate elencano per descrivere vini che a me, nella mia infinita stoltezza, sembrano soltanto “buoni” o “cattivi”, per quanto mi sforzi di rigirarli in bocca come la biancheria sporca nel tamburo della lavatrice. Ho sempre respinto gli inviti a tuffarmi nelle lezioni di wine tasting, di assaggio vini che infuriano a New York negli anni in cui Wall Street vola in cielo e tutti hanno troppi dollari da sprecare.
Poche cose sono più umilianti per un maschio in compagnia di una signora, a parte quelle due o tre cose ben note, che scorrere disperatamente le enciclopedie di uve spremute che i migliori ristoranti ci mettono in mano come un test di sofisticazione, senza sapere la differenza fra un rosso da mescita servito sfuso nei quartino da osteria e una bottiglie di Chateau Lafite de Rotschild, corroso dall’invidia del bere verso i sacerdoti del divino liquido rosso che lo coccolano in bocca e ne capiscono le segrete armonie.
Ma il crudele esperimento di Wired e di quegli amencanacci irriverenti e tracannatori di cocacola che l’hanno condotto, coincide esattamente con la “Legge del Vecchio Armeno” davanti ai suoi antichi stracci colorati. Ogni giudizio è sempre un giudizio soggettivo, perché la micidiale combinazione fra i nostri deboli sensi e il cervello, l’organo che realmente vede, ascolta, assapora, annusa e tocca, privilegia sempre i nostri pregiudizi e condiziona i nostri giudizi. Dunque il vino costoso, come il tappeto più caro o le scarpe più esose, tenderanno sempre a sembrarci migliori dei vini, tappeti o scarpe più economiche.
Resto quindi cauto nella mia ammirazione per il vero conoscitore di vini, che sa distinguere l’esposizione della vigna dal sapore del suo frutto, per il letterato che assegna un Nobel ad autori oscuri, per il giudice che sa definire chissà perché una biondona australiana più bella di una moretta giapponese. Ma la voce del vecchio emigrato armeno che vendeva stracci ai gonzi come me, non mi ha mai lasciato. Il tappeto più bello del mondo è quello che mi piace di più. Cameriere, acqua minerale, per favore. Liscia.

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