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La Repubblica Firenze

Brexit e Trump, Il vino ha paura … Le aziende toscane esportano in Usa e Gran Bretagna per poco meno di 400 milioni. L’allarme del Chianti... Da una parte dell’Oceano l’incubo dei dazi statunitensi, dall’altra lo spettro della Brexit. Sarà un Vinitaly “da paura”, la 51° edizione a Verona dal 9 al 12 aprile. Segnato dalla minaccia che i due grandi poli del mondo anglosassone possano girare le spalle alla produzione delle cantine toscane. Sarebbe una catastrofe. Perché le etichette toscane dipendono dalle esportazioni negli Stati Uniti, in prima battuta, ma hanno un bacino importante anche in Gran Bretagna. Due Paesi in pieno “tumulto import”. Negli Stati Uniti Donald Trump minaccia raddoppi selettivi dei dazi a carico di “produzioni grancassa”, avvero piccole ma di nome, e le etichette toscane potrebbero essere bersagli privilegiati anche per lasciar spazio ai vini del continente americano (lo stesso inquilino della Casa Bianca controlla Trump Winery, 500 ettari di vigneto e un nutrito portafoglio di prodotti ). Allo slogan statunitense “America First”, fa da controcanto l’inglese “Global Britain”, che, con buona pace dei brindisi pubblici a del Principe Carlo, può significare un taglio alle importazione delle nostre etichette: se non altro perché la sterlina perde valore e i sudditi di Elisabetta perdono capacità di acquisto. I numeri alimentano il timore che questo fermento possa significare guai grossi per il re agroalimentare del Made in Tuscany. Stando ai dati Istat elaborati dalla Camera di Commercio di Firenze, nel 2016 l’export dalla Toscana di bevande - che è quasi esclusivamente vino - ha ricavato negli Stati Uniti più di un terzo del totale, il 35,4%, in crescita di quasi 5 punti percentuali dal 2014 (30,5%). In valore assoluto significa che la “Toscana beverage”, dei 945 milioni di euro rastrellati in tutto il mondo nel 2016, ha ricavato negli Usa 335 milioni di euro contro i 240 del 2014. Il mercato britannico vale meno, ma 49 milioni non sono spiccioli, in crescita di 10 milioni tra 2014 e 2016.* Che la temuta minaccia dei mercati anglosassoni rischia di far male, lo ha rilevato per primo il Consorzio del Chianti Classico, che negli Usa ricava 100 milioni, un terzo del suo giro d’affari complessivo, con una crescita vertiginosa negli ultimi anni. Ora a lanciare l’allarme sono anche i cugini del Chianti. “Fortemente preoccupato per le scelte politiche di Trump”, si dice il presidente del Consorzio del Vino Chianti, Giovanni Busi. “Se gli Stati Uniti dovessero imporre dazi anche nel settore vitivinicolo, per noi sarebbe un grande problema visto che il mercato Usa rappresenta il 20% del nostro export, il primo a livello internazionale, con 12 milioni di bottiglie e un valore di oltre 80 milioni di euro”. Di prima fila, per il Chianti, anche il mercato britannico, da cui ricava 30 milioni di euro. “L’Europa rafforzi la sua unità per giocare un ruolo di primo piano nello scenario politico ed economico internazionale, dove rischiamo di avere un peso minore rispetto a colossi come Stati Uniti, Russia e Cina”, invoca Busi, che guida una denominazione con sorti analoghe a quelle degli altri 16 Consorzi che dall’estero ricavano un miliardo di euro. Dal Brunello, che all’estero fattura il 70%, di cui il 30%, negli Usa dei suoi 170 milioni di ricavi, per passare da Vernaccia, Nobile e arrivare alle denominazioni emergenti. Tutti uniti dall’incubo anglosassone.

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