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La Repubblica

Il premio - Assegnati i Nonino agli scrittori di lager e gulag: il rumeno Manea e il bulgaro Todorov. In giuria Claudio Magris ed Ermanno Olmi ... «Io non ho segreti. Basta metterci la roba buona» dice Giovanni Porta Verdese, che tutti chiamano Canelìn. Piemontese, 71 anni, fa un torrone eccezionale. Lavora da solo. Cinquanta chili al giorno, nella caldaietta di rame. Le nocciole le seleziona a mano, una per una. Dopo la sacra terna della civiltà contadina (vino, pane, olio) in prima fila c'è il torrone. Canelìn non ha mai letto una riga di Tzvetan Todorov e di Norman Manea, probabilmente non conosce benissimo le basi date da Loris Malaguzzi al progetto educativo per l'infanzia di Reggio Emilia (sono gli altri del Premio Nonino) e nemmeno è una colpa, perché di questa esperienza si parla e si scrive, con ammirazione, molto più all'estero che in Italia. Sarà un caso. Non è un caso che tutti i premiati, mentre si stringono per la foto di gruppo con la sempre più numerosa famiglia Nonino (altre due nipoti negli ultimi mesi) e la giuria, presieduta da Claudio Magris, sembrino contenti di essere insieme su quel palco, montato nel capannone della distilleria. Denominatore comune: tutti hanno messo la roba buona. Il premio ha ventisette anni di vita ed è così tipico da essere totalmente atipico. Non è solo un premio letterario. Anche lo fosse, è totalmente estraneo ai giochi e giochetti delle case editrici. Nato come riconoscimento ai difensori della civiltà contadina, dunque attaccato alla terra, alla piccola patria che è il Friuli, via via è diventato più attento alla terra con la iniziale maiuscola, al mondo, alle culture. L'internazionalità della giuria (V.S. Naipaul, le Roy Ladurie, Peter Brook, tra gli altri) oltre a irrobustirlo nell'estraneità a giochi e giochetti gli ha dato visione e risonanza internazionale. Già si sapeva, basta e avanza qualche nome del passato: Amado, Elias, Grotowski, Jonas, Kemal, LeviStrauss, Mutis, Senghor. Anche se la famigliona ha il buon gusto di non farlo notare, Rigoberta Menchù e Naipaul hanno ritirato prima il Premio Nonino e poi il Premio Nobel. Cominciano tutti e due per no. Una delle differenze è che a Stoccolma non arrivano mai quelli con le fisarmoniche. Qui sempre, e basterebbe questo a farmi muovere da Milano. Manea si è mosso da New York e parla della condizione dell'esule. Da bambino ebreo romeno è stato in un campo di concentramento («gestito da romeni, non da tedeschi, per questo la sopravvivenza è stata del 50 per cento»), da adulto è stato perseguitato da Ceusescu. Da quindici anni insegna cultura europea al Bard College e continua a scrivere in romeno. Brinda con un distillato di miele di tarassaco, l'ultima creazione. Anche Todorov ha scritto di lager e gulag («di fronte all'estremo») e nel suo ultimo lavoro («Memoria del male, tentazione del bene») analizza ogni forma di totalitarismo. E' più disinvolto di Manea, parla un francese senza accento bulgaro, da quarant'anni vive a Parigi dove dirige il Centro di ricerca sulle arti e sul linguaggio. Alla cena per pochi (100) venerdì c'erano anche Arbore, Romiti, Ottavio e Rosita Missoni, Lerner, Mannheimer, Inge Feltrinelli e Altan, fuori concorso perché vive qui a due passi, ad Aquilèia. Gianni Brera era uno della giuria. Ieri, lo chef Roberto Cozzarolo del ristorante «da Toni» di Gradiscutta gli ha dedicato gnocchi di zucca con ricotta affumicata di Enemonzo. Decisamente all'altezza del ricordo. Alla fine, Giannola Nonino è salita sul palco al grido di battaglia: «Gli ungheresi non ci fregheranno il Tocai, qui c'è da mille anni». Forse meno, ma per spuntarla basterà esibire un documento del 1632 (la dote portata da Aurora Formentini ad un conte ungherese) in cui si parla di «300 vitti di Toccai». Finirà che gli ungheresi si terranno il loro Tokay e i furlani il loro Tocai. Ma questo è un altro discorso, e verrà buono un'altra volta.

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