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La Repubblica

Carlo Petrini, il cibo è politica… Esce il nuovo libro del fondatore di "Slow Food". Può il libro di un gastronomo essere un significativo testo politico? Domanda bizzarra se la gastronomia evoca lo stereotipo del ghiottone, nelle due vesti correnti, quella snob del critico di ristoranti fashion e quella «popolare» dello spacciatore televisivo di soffritti e insaccati, ormai dilagante in ogni palinsesto.
Ma se il gastronomo è Carlo Petrini, la domanda diventa pertinente, del tutto conseguente alla vita, alle idee e all´attività (politica!) di un piccolo, tenace, appassionato intellettuale langarolo che è diventato negli anni un leader mondiale del mondo contadino: fino a meritarsi un posto nella classifica dei cento Eroi Europei del 2004 di Time per avere organizzato con Slow Food, lo scorso anno a Torino, lo sbalorditivo raduno mondiale «Terra Madre», cinquemila delegati da ogni angolo del mondo, autentica internazionale contadina che ha messo in relazione (ormai stabile grazie a internet) comunità fin qui isolate e ignare l´una dell´altra, dai pastori nomadi della Mongolia agli allevatori lapponi: ed era storia sociale, quella, mica folklore.
E tutto questo partendo dal piatto e risalendo, per curiosità culturale e passione sociale, alla catena del cibo nella sua interezza, al mondo della produzione, della trasformazione e della commercializzazione degli alimenti. Alla terra, alla sua tumultuosa mutazione (e alienazione) conseguente al velocissimo affermarsi dell´agroindustria, delle colture intensive, della sovrappopolazione, delle biotecnologie, del mercato come unico regolatore degli scambi e dei conflitti.
Forte di questo percorso, nel suo Buono, pulito e giusto (Einaudi, pagg. 266, euro 15,5) Petrini può continuamente rivendicare, fin dal sottotitolo «principi di nuova gastronomia», il suo essere, prima di tutto, gastronomo. Il valore dei sapori, al di là del rivendicato piacere sensoriale, per Petrini coincide con il valore dei saperi umani contenuti nel piatto e nel bicchiere, e del sapere in generale: dal gesto, insieme atavico e futurista (perché perpetua la vita) di nutrirsi, scaturisce una inesauribile catena di domande, molte delle quali nevralgiche per capire che cosa sta accadendo, oppure è già accaduto, sulla faccia del pianeta.
L´uomo che mangia, per l´autore, è anche l´uomo che pensa: e se non lo è, lo si aiuti a diventarlo. Per questo, nel libro, le parti consacrate alla teoria sono continuamente inframmezzate dal diario minuto delle esperienze gastronomiche, e dei relativi incontri umani, che l´autore ha collezionato in giro per il mondo, Messico e India, California e ovviamente Langhe. Una rete di relazioni umane, culturali e politiche ricchissima, e tessuta, questo è il punto, sempre a partire dall´esperienza del cibo.
Privilegio del gastronomo è infatti l´accesso squisitamente empirico alle tante discipline connesse alla produzione, al consumo e alla ritualità del cibo: assaggiando un cibo si assaggiano anche agronomia, economia, antropologia, fisica, chimica, medicina, botanica, tecnologia, e diversi altri possibili approcci che l´autore elenca con orgoglioso puntiglio, in forte polemica con l´idea, quasi caricaturale, del gastronomo mangione, semplice classificatore di delicatezze culinarie o assaggiatore d´élite.
Per dire quanto poco elitaria sia questa accezione colta e politica della gastronomia, si sappia che oltre la metà dei terrestri sono contadini, cioè addetti a riempirci il piatto. E´, questa presenza brulicante e dimenticata, il vero grande fantasma che aleggia tra le pagine del libro, con particolare e dolente insistenza sulla brusca interruzione del rapporto diretto tra la terra che ci nutre e la nostra cognizione di lei. Il classico esempio del bambino occidentale urbano che mangia le crocchette di pollo al fast-food (in realtà, un derivato del pollo zeppo di correttivi chimici e simulatori di sapore) e non ha mai visto una gallina, è appena una piccola metafora di fronte alla totale perdita di conoscenza, di controllo e dunque di scelta dei consumatori, separati fisicamente e culturalmente dalle loro fonti di approvvigionamento: dal proprio cibo e cioè dalla propria vita.
Questo allarme ha generato il più tipico e divulgato aspetto dell´attività di Slow Food e del suo capo Petrini: l´attaccamento al territorio, anzi ai territori, l´accentuazione del valore identitario del cibo, la difesa ostinata, grazie ai presìdi alimentari, delle differenze locali, delle specificità delle colture e delle culture minacciate dall´agroindustria. Con un´aura di nostalgia e a tratti di impuntatura passatista (alla Bové) che farebbe storcere il naso, non fosse in gioco (e Petrini, nel suo libro, lo spiega benissimo) il futuro, non il passato.
L´incompatibilità ambientale di molte delle nuove colture intensive (esemplare il capitolo, agghiacciante, sulla distruzione dell´ecosistema costiero nel Sud-Est asiatico provocato dall´introduzione, su suggerimento della Banca Mondiale, di sconfinati allevamenti di crostacei, cancellando le barriere di mangrovie e aiutando assai lo tsunami a fare strage), quell´incompatibilità ambientale, dicevo, non è un dettaglio caro ai nostalgici del buon tempo andato. Non è una cartolina strappata. E´ una questione strutturale, decisiva per i destini del mondo. Ed è - al pari del mondo contadino nel suo complesso - una questione ampiamente rimossa nel dibattito politico minuto, e non così in primo piano nell´agenda politica mondiale, quella delle istituzioni, quella dei centri di potere e di decisione.
A questo proposito, impressiona particolarmente valutare quanto i temi sollevati da Petrini (tanti e magari troppi: ma nessuno dei quali non susciti profondo interesse, e anche qualche angoscia) siano assenti dal tavolo della politica italiana. Petrini, in questo senso, incarna un paradosso quasi inspiegabile. Vincente in campo internazionale (è in costante rapporto con Carlo d´Inghilterra, Vandana Shiva, ambientalisti, economisti e accademici di mezzo pianeta), fondatore di una Università delle Scienze Gastronomiche, a Pollenzo, frequentata da studenti di tutti i continenti, e unica al mondo nel suo genere, ha scritto un libro che, allo stato attuale delle cose, si colloca nel paesaggio politico-culturale della sinistra italiana come un oggetto misterioso. In quale scaffale metterlo? Accanto alla guida delle osterie tipiche, tanto per levarsi l´impiccio di dover sapere che i contadini sono la prima categoria al mondo per tasso di suicidi?
E perché mai si dovrebbero aggiungere al già intricato ordine del giorno questioni di così larga prospettiva (questioni epocali, si dice oggi, questioni strutturali, si sarebbe detto una volta a sinistra) da levarci il sonno? Come facciamo a occuparci delle foreste di mangrovia, o della distruzione delle biodiversità, se abbiamo da regolare il deficit dei conti pubblici?
In questo senso, le parole di Petrini cadono nel mezzo della crisi di tutta la cultura ambientalista, emarginata, nel suo complesso, anche per demeriti suoi (il catastrofismo, l´eccesso di emotività, l´antiprogressismo latente), ma soprattutto perché pone problemi che hanno radici così profondamente infisse nel modo di produzione globalizzato, nelle scelte di fondo, da sembrare o irresolubili o posticipabili (meglio, posticipabili perché irresolubili), comunque fuorvianti rispetto alla febbrile gestione del quotidiano. Schiacciati sull´oggi, non riusciamo più a liberare su noi stessi uno sguardo dilatato nel tempo.
Merito, grandissimo, di organizzatori culturali come Petrini, è sprovincializzare lo sguardo, cercare i nessi, non poi così misteriosi, tra la caduta verticale del desiderio di futuro, della stessa percezione del futuro, e un presente in ostaggio di se stesso. Da Bra, dove Petrini è nato e lavora, a Calcutta o al Chiapas, il passo è così breve che l´autore, nell´ultima parte di un libro non allegro, non ottimista, traccia le linee di una possibile globalizzazione virtuosa, solidale, ecocompatibile, da sviluppare in parallelo, e in concorrenza, con la globalizzazione imperiale e snaturante dei padroni dell´economia. Il topo che sfida l´elefante. La rete di Slow Food è minuscola (duecentomila iscritti in tutto il mondo, moltissimi negli Usa), ma è in piedi, lavora, propone, difende, attacca, pubblica, organizza. Si può fare, si può tentare, si può credere che i concetti di «buono, pulito e giusto» (cioè piacevole, ecologico e socialmente equo) abbiano un futuro. Ci crederà anche la sinistra, da sempre habitat di Petrini, suo terroir naturale? Oppure, specie nel caso che la sinistra arrivi a governare, si limiterà a chiedergli consigli sul miglior bicchiere a tiro di auto blu?


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