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La Repubblica

Ma l’idea di innovare è patrimonio di pochi ... Questo Vinitaly si apre all’insegna di un ritrovato ottimismo da parte dei produttori italiani, ma bisogna chiedersi, al là della congiuntura oggi più rispetto a un anno fa, che cosa è realmente cambiato nella struttura del vino italiano per autorizzare previsioni più rosee. I problemi e i nodi sono oggi quelli di ieri. E l’analisi, appena diffusa da Vinexpo/IWSR, che da qui al 2009 prevede per l’Italia una buona crescita in valore più che in volume soprattutto per i vini più pregiati, non autorizza a ritenere che nella competizione mondiale la strada sia ormai in discesa. Anche perché siamo tuttora in presenza di una vistosa crisi di sovrapproduzione con cantine piene di bottiglie invendute e pronte a essere svendute.
In un ideale promemoria per le autorità - governo, regioni, enti di promozione, associazioni di categoria - resta al primo posto il problema costituito dalla polverizzazione e dalla delle aziende italiane: sono 800 mila i viticultori ma solo poche centinaia posseggono più di 50 ettari e solo una decina fatturano più di 100 milioni di euro, costituiscono una variegata compagnia dove l’eccellenza, rara, marcia a fianco dell’ordinario e dove i concetti di innovazione, di mercato, di marketing sono patrimonio di pochi. Gli altri, la gran massa? Agricoltori volenterosi e spesso furbetti che, incapaci di trovar spazio sui mercati, premono per ottenere una pletora di nuove Doc che certifichino la mediocrità, vivacchiano come possono, e non disdegnano in qualche caso pratiche border line rispetto alle norme nazionali e comunitarie, le cui maglie larghe permettono traffici di uve, di mosti, di vini fra regioni, fra denominazioni, fra cantine e prevedono generosi contributi per chi estirpa vigneti inesistenti o denuncia eccedenze produttive gonfiate.
Si disperdono così risorse consistenti che viceversa dovrebbero essere destinate a sostenere la crescita “culturale” dei vignaioli e a creare un efficace sistema di promozione per il made in Italy agroalimentare. Non c’è paragone fra la capacità di penetrazione del nostro sistema di promozione e la forza di fuoco messa in campo non solo dai nostri competitori tradizionali ma anche dai paesi emergenti del cosiddetto Nuovo Mondo: produttori di vini tecnicamente inattaccabili, fatti in quantità enormi, privi di identità e di storia ma “piacevoli” per il consumo di massa e, soprattutto, clamorosamente a buon mercato. Occorre una revisione, è ovvio, del quadro legislativo, ma mancano strutture di supporto, dalla produzione al sostegno nella ricerca di nuovi mercati, dove oggi possono arrivare soltanto gli industriali, le grandi cantine sociali e poche firme affermate. Non si sfrutta la formidabile potenzialità della cucina italiana come veicolo per l’affermazione della cultura, della gastronomia e del vino italiani. In che modo? Investendo, anche in questo caso, in scuole di formazione soprattutto all’estero per operatori, cuochi e sommelier che operino come promoter del made in Italy.

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