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La Repubblica

Il vino italiano conquista gli Usa. Battuti francesi e australiani ... Le esportazioni aumentate del 18% in valore e quantità. I transalpini superati dall’Argentina... Fresh Direct, il supermercato on line più gettonato dai newyorkesi, ha appena inserito nella sua pagina web l’Aglianico, il Primitivo del Salento e il Montepulciano d’Abruzzo. Candlelight Wines, enoteca dell’Upper West Side con vetrine su Broadway ha allargato gli scaffali italiani per fare posto al Vermentino e al Nero d’Avola. Al Rockefeller Center, da Morrel, famoso per le sua aste di vini pregiati, si scommette sulla Falanghina e per l’alta qualità sull’Amarone.
“E’ questa la chiave dell’immenso successo del vino italiano negli Stati Uniti: la grande varietà. Siamo in grado di proporre prodotti diversissimi, per ogni esigenza, per soddisfare tutti i gusti.
Francesi, californiani e australiani invece hanno vini di successo ma tutti della stessa tipologia e questo ci aiuta a consolidarci in un mercato che sta imparando ad apprezzare le differenze”. Livio Caputo, presidente dell’italian Wine & Food Institute, spiega così i nuovi dati diffusi ieri che confermano nei primi due mesi del 2007 il primato dell’Italia sul mercato americano. Non ci sono più solo il Piemonte e la Toscana, ma tutte le regioni sono rappresentate e anzi sta diventando di moda, soprattutto a New York, portarsi a casa vini siciliani, sardi e pugliesi, fino a pochissimo tempo fa assolutamente sconosciuti.
Il nostro campione è il Pinot grigio, quello degli australiani lo Shiraz. Ma nonostante le difficoltà create dall’Euro forte l’Italia sta vincendo ancora la partita: il nostro Paese si è confermato il primo esportatore divino negli Stati Uniti con un aumento superiore al 18% sia per quantità sia per valore, battendo l’Australia e la Francia, che, in calo costante da anni per numero di litri forniti al mercato americano, ha perso il terzo posto superata dall’Argentina, che si sta affermando come paese fornitore di vino sfuso per i produttori californiani.
“Questo successo - spiega Riccardo Legnaro, vicepresidente delle importazioni italiane di Palm Bay, la società fondata da David Taub, uno dei primi americani a scommettere sull’Italia - è in parte dovuto al traino del Pinot grigio, un vino che cresce del 15% ogni anno da un decennio. Gli americani lo amano per il suo gusto, perché si beve bene, perché ha un buon prezzo e perché ha il nome giusto, cioè si pronuncia bene, e anche questo conta. Ha preso il posto che vent’anni fa era dello Chablis”.
Ma bisogna stare attentissimi, la debolezza del dollaro ci penalizza inevitabilmente e apre la strada ai sudamericani, in particolare il Cile, ai paesi dell’Est appena entrati in Europa,che non hanno l’Euro ma fanno parte di un mercato comune e ai prodotti americani di ispirazione cresciuta del 20% nell’ultimo anno, ma dentro - sottolinea ancora Legnaro - ci sono anche i Chianti della California, che come il Dolcetto, il Nebbiolo e perfino il Lagrein, inizia ad essere prodotto negli Stati Uniti”.
Nei supermercati americani il vino rosso più venduto in assoluto nel 2006 è stato il Merlot (nelle sue diverse provenienze, americane e straniere), con 12 milioni di cartoni da 12 bottiglie, mentre il Pinot grigio è il primo “italiano” con oltre sei milioni di cartoni. Sono cifre impressionanti di un paese in cui il consumo di vino cresce a ritmi vertiginosi (più 22,5% solo nei primi due mesi del 2007).
Ma non è solo una questione di quantità, anche nella fascia alta siamo in testa, ma qui la partita è con i francesi. Il nostro campione, spiega Caputo, resta il Brunello di Montalcino, affiancato dal Barolo e dall’Amarone. Di quest’ultimo Giancarlo Aneri ne porta negli Usa 6000 bottiglie ogni anno, è un prodotto di nicchia altissima, in enoteca costa 175 dollari, al ristorante 300 ma è sempre esaurito: “Ci sta dando soddisfazioni fino a pochi anni fa impensabili: al ristorante Four Season di Park Avenue a New York o al Setai di Miami, l’albergo più esclusivo della Florida, l’Amarone se la batte con i grandi Bordeaux, a partire dallo Chateau Margaux. Chi l’avrebbe mai immaginato”.

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