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La Repubblica

Il Mago della vigna ... Sono un ultrà del sangiovese ... Il fiorentino Carlo Ferrini è stato appena eletto enologo dell’anno dagli americani di Wine Enthusiast “Il segreto di un grande vino? Il carattere”...
Carlo Ferrini, qual è il vino migliore?
“Mi verrebbe da dire un’etichetta di Bordeaux, ma non si può”.
E quello che si deve bere almeno una volta nella vita?
“Un grande Porto rosso, con un pezzetto di cioccolata amara in bocca”.
Come, due preferenze straniere per l’enologo fiorentino nato nella terra del Chianti Classico e che più crede nel sangiovese?
“Beh, se si va sui desideri. Ma è vero, sono un acceso sostenitore del sangiovese, grande vitigno dalle enormi potenzialità”.
Partiamo dall’inizio.
“Nato a Firenze nel 1954, studi classici, facoltà di agraria, tesi di laurea in microbiologia sulla fermentazione del vino, prima vendemmia nel ‘79, dieci anni di lavoro nel Consorzio del Chianti Classico come responsabile tecnico del laboratorio. La mia passione è sempre stata la vigna e in vigna sono rimasto”.
Un viaggio che il 28 gennaio 2008 approda a New York, dove riceverà il premio di “enologo dell’anno 2007” da Wine Enthusiast, prestigiosa testata americana. E in mezzo che c’è?
“Tanta esperienza, tra i problemi di piccole e medie aziende del Chianti. Ho visto di tutto, dalla viticoltura poverissima ad oggi. I difficili anni ‘80, in aziende con legni vecchi, tutto fatto al risparmio, il vino Chianti fatto di canaiolo, colorino, sangiovese e persino trebbiano e malvasia. Il vino era solo cultura alimentare. Oggi ci sono le cantine dei grandi architetti, i vigneti rifatti, i legni francesi”.
Sembra un cammino tra due eccessi.
“Una volta si era all’inizio di qualcosa di importante, oggi le aziende sono piene di ricchezza e luccichii, ma siamo lontani dal traguardo, la nostra viticoltura è ancora giovane in confronto a quella francese, c’è molto da imparare e da fare”.
Nonostante il boom dei nostri vini?
“Il boom è arrivato negli anni ‘90 con i Supertuscan, con l’introduzione di capitali stranieri, con imprenditori svizzeri e tedeschi che hanno portato nel nostro bel territorio vitigni internazionali, mentalità nuove, il confronto con il resto del mondo che ci ha allargato il cervello”.
Vini sempre più buoni ma sempre più uguali, dicono in tanti.
“Lo so, c’è chi taccia gli enologi di fare vini tutti uguali. Ma non sono d’accordo. Io parto da dove lavoro, dal territorio. Anche se tutti mi dicono che ho un mio stile riconoscibile: vini senza difetti, puliti, eleganti, colore intenso. Eppure sono tutti diversi, perché si parte dall’uva, dalla vigna. La cantina è solo un passaggio. Il discorso cambia per quelli di fascia media che si assomigliano un po’ tutti, perché creati per consumatore standard. Ma qui entra l’industria”.
E la via giusta qual è allora?
“Bere meno e bere meglio, in qualità. E per i produttori, diversificare, caratterizzare sempre di più. Un grande vino non è tale se manca di carattere. E non c’è barrique che regga. Si deve lavorare sull’uva. Le potenzialità in Toscana sono enormi ma spesso non vengono sfruttate per mancanza di pazienza e conoscenza. I risultati in una vigna si hanno dopo 7-8 anni. E il sangiovese va studiato ancora”.
E’ questa la sfida per i produttori toscani?
“Sì, oltre alla conoscenza del terreno per sapere cosa piantare. Perché oltre al sangiovese, ci sono merlot, cabernet, syrah e l’interessante petit verdeau. Di fatto si deve sapere cosa c’è sotto, nel terreno. Sappiamo tutto del sole, della siccità o le piogge, ma non siamo attrezzati per quello che non si vede, dove poggiano le radici”.
Lei è ha lavorato prevalentemente in Toscana.
“I miei vini? Siepi per il Castello Fonterutoli, Casalferro per Brolio, Giorgio Primo per La Massa, Cerretalto per Casanova di Neri a Montalcino, Galastrona per Petrolo, Asinone per Poliziano. Ma anche Mille e una Notte per Donnafugata in Sicilia. E ora lavoro in Abruzzo e in Puglia per Mater Domini. Sta scappando dalla Toscana?
“No, è che si ha voglia si sperimentarsi, di ripartire con la sfida”.

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