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La Repubblica

Ho passato il 25 aprile nelle Langhe. Piccola e intensa manifestazione di ex partigiani in una palestra scolastica in cima a un poggio, sopra un mare ben pettinato di vigna, nel cuore del Barbaresco. Facce di popolo, osterie, vino, chiacchiere, dialetto, senso profondo di comunità. Radici antiche affondate tra le case e le vigne, nei posti di Bartolo Mascarello, re del Barolo e ostinato antifascista, di Nulo Revelli, Fenoglio, Bocca, Carlo Petrini. Al posto della macchia selvatica e dei borghi poveri che nascosero i partigiani, l'evidente e non troppo straniante benessere dei filari di vite preziosa, dei casali capienti e imborghesiti, dei ristoranti gremiti e lussuriosi, del turismo ricco che arriva in Langa per gratificare i sensi.
Gian Maria Testa cantava, sul palco insieme a lui abbiamo letto passi di Bocca e Meneghello, le parole della memoria e della dignità. I vecchi partigiani - quelli rimasti - avevano il fazzoletto tricolore al collo. Quello che mi sono chiesto, tornando a casa, è come mai questa storia di popolo e di libertà (in un paese che non ha molte altre epopee da raccontare) è stata difesa così distrattamente, e forse così malamente, da noi figli e nipoti. Troppi soldi? Troppa vita da vivere? Troppe altre cose da fare? Troppo il tempo che passa, e passando cancella anche il sangue?

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