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La Repubblica

Il buon cibo contro la crisi … La moltitudine di persone che partecipa a Terra Madre (oltre 7.000 da 154 Paesi del mondo, in grandissima maggioranza contadini, pescatori, nomadi raccoglitori e piccoli artigiani) rappresenta quella porzione di umanità che continua a mantener al centro della propria esistenza il cibo. Questa centralità è ciò che invece il resto della comunità mondiale sembra essersi dimenticata: quindi è ciò che dobbiamo cercare di riportare con urgenza nelle nostre vite.
In tempi di crisi economica e finanziaria, ecologica e climatica, il cibo è il più semplice e al tempo stesso più efficace strumento per invertire queste tendenze negative. Lo comprendiamo molto facilmente rivolgendo il nostro sguardo ai delegati di Terra Madre e alle comunità che rappresentano.
Queste persone producono alimenti buoni in maniera sostenibile, sanno affermare con poco la loro identità, cultura e tradizione e rivendicano giustamente una dignità che troppo spesso gli è negata. E’ una moltitudine di diversità che nel confronto e nell’incontro sa esaltare le tante specificità di cui è portatrice e la loro importanza. Dico di più: essi sono già pronti pere essere uno dei soggetti protagonisti di quella che si sta prefigurando come una necessaria terza rivoluzione industriale, che dopo il vapore e l’elettricità dovrà iniziare a sfruttare con decisione le energie alternative e rinnovabili.
Da sempre, con molta immediatezza, nelle loro comunità questi uomini e donne producono cibo in armonia con la natura, rispettano e utilizzano con buon senso la biodiversità che caratterizza i loro territori, badano a non sprecare, a ottimizzare l’utilizzo delle risorse che hanno a disposizione. Praticano il riciclo e il riuso, perché come la tradizione rurale di ogni parte del mondo vuole, “non si butta via niente”. Lavorano per mantenere la fertilità dei suoli, fanno parte di un sistema che ha nell’energia solare il suo fulcro: se ci si pensa, in fondo, l’agricoltura si basa sulla fotosintesi e su tutti i processi che poi a cascata da essa dipendono. Queste sono tutte cose che le comunità praticano quasi in maniera innata, spontanea, ma molto consapevolmente, perché conoscono bene le complesse relazioni sistemiche tra cibo, agricoltura e ambiente.
Se dunque si potrebbe essere tentati di descriverli come gli umili della Terra, o come i protagonisti di un’economia marginale, bisogna invece notare come essi sono gli unici già pronti per rispondere alle sfide che il mondo ci pone innanzi. E lo fanno semplicemente mettendo al centro delle proprie vite il cibo, facendo il loro lavoro di sempre, praticando quell’economia reale - e locale - che da più parti si sta chiamando in causa come la base per ripartire dopo la crisi. E’ quindi quanto mai giunto il momento di ascoltarli e di imparare a fare un po’ come loro, per poter rilanciare una sorta di new deal da cui ripartire. Un nuovo patto, in nome della sostenibilità ambientale ed economica, che sappia far fruttare le ricchezze di queste comunità grazie ad una nuova agenda politica delle istituzioni a tutti livelli; che possa dare addirittura nuove prospettive all’industria, fino a far tornare la speranza negli stessi consumatori. I quali dovranno a loro volta cominciare, per forza di cose e per essere anche loro protagonisti del cambiamento, ad essere più responsabili, prestando più attenzione alle storie che stanno dietro a ciò che mettono quotidianamente nei loro piatti.

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