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La Repubblica

Sicilia, zibibbo e meditazione ... Fino a non molti anni fa la tendenza all’autolesionismo nei siciliani era talmente perversa da raggiungere un livello comico, almeno per quanto riguardava la gastronomia. La Sicilia continuava ad essere definita nei manifesti pubblicitari ed era la terra delle arance. Ma i caffé e i bar in cui si poteva bere una spremuta e non un surrogato erano tre o quattro in tutta l’isola, tra i quali il leggendario Pinguino, in via Maqueda, a Palermo. E la mattina nei grandi alberghi gli stranieri facevano colazione con marmellate inglesi, importate a caro prezzo e inscatolate con arance spagnole, infinitamente meno profumate delle siciliane. Perché la regione chiedeva da mane a sera provvidenze per l’industria pesante che inquinava quei mari che attiravano il turismo e nessuno pensava a mettere su una fabbrichetta che trasformasse il surplus delle arance mandate al macero in qualcosa di produttivo come le marmellate. E nei ristoranti chi chiedeva un cannolo era guardato come un provocatore e pregato di favorire in pasticceria. Non chiedetemi le ragioni di questo demenziale comportamento: probabilmente rientrava in uno di quei paradossi della mentalità siciliana che rendeva complicata anche la cosa più semplice. Dopo il rifiuto del cannolo, improvvisamente il cameriere diventava premuroso e proponeva una serie infinita di malvasia, passiti, zibibbi, marsala serviti in bicchierini della nonna che cercavano di dare come un tono di vecchia Sicilia. Ma il cliente che fino a quel momento non aveva bevuto che vini liquorosi, pesanti, zuccherosi onnipresenti in qualsiasi tavola prima della rivoluzione enologica siciliana, non vedeva la ragione di continuare su questa linea e di aggiungere un’altra bevanda che sembrava assolutamente simile a quelle servite in precedenza.
Quando finalmente i figli dei proprietari terrieri, invece di fare flanella a Palermo a rimorchiare le straniere, hanno cominciato a frequentare i corsi di enologia e la gestione delle case vinicole è stata affidata a coltivatori esperti, i vini siciliani hanno perso tutte quelle gradazioni inutili e quello zucchero in eccesso, e sulle tavole sono cominciati ad apparire alcuni tra i migliori bianchi e rossi d’Italia. E i passiti hanno ripreso il posto che spettava loro, come allegro e profumato finale di un pranzo riuscito. E anche degustati, con una certa spregiudicatezza, almeno in Italia, come aperitivi gelati, da accompagnare, per dire, a tartine imburrate con le alici di Sciacca. Il passaggio dall’Ancien Régime, che nessuno rimpiange, è stato di una rapidità sorprendente e ha coinvolto centinaia di produttori.
Adesso le marmellate siciliane non solo presentano una varietà di sapori all’interno del genere agrumi, ma gli esponenti dello slow food sono arrivati a proporre la “Gelée del Nero d’Avola” e sulle tavole dei contadini, insieme con il solito primo sale e pecorino invecchiato, compaiono formaggi che hanno pochi rivali in Europa, come la Tuma Persa e il Majorchino. Quanto ai passiti, il mercato offre una tale varietà che è difficile orientarsi. L’incremento della produzione è stato la conseguenza naturale della scoperta dei vini liquorosi siciliani, come gran finale della scoperta del cibo mediterraneo, iniziato oltre trent’anni fa dalla più straordinaria scrittrice anglosassone di gastronomia, Elisabeth David. I deliqui e tutte le iperboli adoperate per descrivere l’esperienza di sorseggiare lo zibibbo di Pantelleria, promosso a bevanda filosofica, adatta a momenti di meditazione, non appartengono ai siciliani, ma ad una confraternita tra le più potenti del mondo moderno. Quella dei titolari di rubriche di wine and food nei giornali americani, che condizionano masse di turisti. Ogni anno questi simpatici ex ragazzi scendono in Sicilia, a spese dei loro editori e quasi sempre ospiti dei produttori di vino, e sono rintracciabili quasi sempre nelle sale di degustazione, che oramai non mancano mai in ogni cantina. Quando si mettono a descrivere, questa atmosfera che solo il sud può offrire viene travasata in una prosa che spesso esce fuori dai canoni anglosassoni per levitare nell’aria come una mongolfiera guardata con ammirazione e stupore dai siciliani che non si aspettavano tanti complimenti per i loro vini.

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