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La Repubblica

Chicago, la città-bistecca ... “L’evoluzione da città-mucca a sofisticata capitale della cucina merita il riconoscimento da tutti quelli che vengono a conoscerla”. Concetto tagliato con un coltello affilato, quello che Barbara Glunz, presidente de “Le Dame d’Escoffier Chicago” usa per raccontare la città più golosa d’America. A poche ore dalle elezioni, nella capitale dell’Illinois - qui vive Barak Obama - l’attesa non sottrae appetito ai sei milioni di chicagoans, che ogni giorno affollano le migliaia di “eateries”, i luoghi del cibo sparsi ovunque. Un destino, quello di città-dispensa, segnato all’origine: i primi abitanti, gli indiani Potawatomi, l’avevano battezzata “Checaugou”, cipolla selvatica, per l’abbondanza di ortaggi. Dalle verdure alle bistecche, il passo fu rapido: la posizione geografica - nel cuore della nazione - la grande quantità di immigrati neri sfruttati come manodopera a bassissimo costo, l’invenzione del refrigeratore e quella del treno, il trasporto via acqua sul Chicago River, trasformarono la città di Abramo Lincoln nel più grande magazzino di carne d’America. A cambiarne irrimediabilmente il volto, un’epidemia di colera e uno spaventoso incendio che nel 1871 bruciò quasi ventimila case. Sopravvissuta al Proibizionismo, alle rivolte razziali e al dominio di Al Capone, in riva al lago Michigan l’industria della carne ha comunque prosperato fino a metà Novecento, realtà sublimata dalla McDonald’s, che qui ha la sua sede mondiale. Ondate di immigrazione successive hanno fatto di Chicago una città-laboratorio del cibo del mondo. Un melting pot gastronomico dove ogni etnia ha trovato spazio. A coordinare ed esaltare tanta ricchezza alimentare, trent’anni fa sono nate le “Dames”, un gruppo di cuoche, giornaliste, sommelier, ispirato all’esperienza delle storiche chef francesi associate nel nome di Auguste Escoffier, il gastronomo che codificò la cucina francese del Novecento. Grazie al loro lavoro e all’attività dell’American Institute of Wine and Food, la “cow-town” del secolo scorso è diventata la capitale gastronomica d’America. Il tutto - dalla rivendita di hot dog (rigorosamente senza ketchup) al ristorante a lume di candela in riva al lago - praticato con i comandamenti dell’ecosostenibilità. Concetti che in Italia ancora vengono considerati poco meno che rivoluzionari - cucina chilometro zero, mercati contadini, biologico - qui sono pratica quotidiana. Da marzo a ottobre - in inverno la windy town non permette lunghe soste all’aperto - prosperano i farmers bio market, prezzi accessibili e qualità specchiata per la spesa quotidiana. In inverno i chicagoans affollano i supermercati, dove vengono offerti mini-corsi di cucina, preparazioni di piatti dal vivo attingendo a tutti gli ingredienti in arrivo dal pianeta. Nel pot-pourri di ortaggi e salse, tagli di carne e biscotteria, la gastronomia italiana ha un posto di assoluto rilievo, tanto che nei ricettari di cucina locale spiccano piatti come il Chicken Vesuvio (in forno, con tutti gli odori mediterranei) e il Chicago-style italian beef sandwich (con hard italian rolls, fette di pane rustico cotto a legna). Nelle prossime settimane, Lavazza aprirà due suoi Espression Cafè agli ultimi piani - i contesissimi sky-bar - del Drake Hotel e dell’Hancock Observatory. Se poi volete regalarvi il once-in-a-lifetime meal, la cena della vita secondo i critici gastronomici americani, andate da “Alinea” e lasciate che chef e sommelier scelgano per voi. I venticinque assaggi del menu degustazione saranno accompagnati per almeno la metà da vini italiani, gli stessi portati in passerella a inizio settimana dal Vinitaly Usa Tour. Se siete di simpatie democratiche, d’obbligo un brindisi a Barak Obama.

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