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La Repubblica

Il caffè non paga e Starbucks sceglie di alzare il gomito ... Irrompe il vino nei coffee-shop più famosi del mondo... Con il Frappuccino a 3 dollari e 85, più tasse, e siamo a 4,17 in totale, sfido che i conti non sono più quelli di una volta. Metteteci pure la crisi che accorcia le tasche e l’assalto di un concorrente come McDonald’s, che ha aperto un McCafé in ognuno dei suoi 16mila ristoranti qui negli Usa, e il caffè è servito: amaro. Howard Schultz, il padre padrone di Starbucks, la catena più grande del mondo, 16mila e l20 punti vendita in 49 paesi (Italia esclusa) sa bene che quando, in questi giorni, presenterà l’ultima trimestrale, le cifre non saranno più spumeggianti come la “cream” che addobba (e ammappa) i suoi beveroni.

Sarà anche per questo che il papa del colosso di Seattle si è convinto al passo che sta dividendo gli esperti di marketing: darsi all’alcol. Proprio così: a partire da questa settimana, il marchio verde con la sirena in primo piano - il seno, che nei pionieristici anni 70 era nudo, ormai coperto dai lunghi capelli - tenterà di dare una scossa al brand, trasformando uno dei suoi storici locali di Seattle, “15esima Avenue, Capitol Hill, in una specie di mondo a parte, che si chiamerà semplicemente “15th Avenue Coffee and Tea”. Via il marchio, via la scritta. Via i beveroni, il caffè solo con la macchinetta dell’espresso, e poi si serve vino, birra e, all’occorenza, anche qualcosa di più forte. Dice al Wall Stret Journal Ron Paul, presidente di Technomic Inc. che “aprire uno store con un nome diverso può dare a Starbucks la possibilità di testare la reazione dei consumatori senza coinvolgere direttamente il marchio”.

Ecco, testare: proprio così. La casa, scrive Melissa Ellison, business reporter del Seattle Times e animatrice del blog Coffe City, è già pronta a trasformare altri due locali in città. Ma il mercato guarda avanti e scommette sul sub-brand. Dobbiamo aspettarci una Starbucks2? O l’esperimento servirà soltanto da pilota per importare poi gli alcolici, soprattutto il vino che negli Usa è sempre più di moda, negli stores verde-marchiati? La svolta alcolica è 1’ultima sorpresa nella storia di un marchio che è già leggenda. Da una parte logo odiatissimo dai no-global, dall’altra punta di diamante di quell’imprenditoria Usa attenta all’industrialmente corretto (sostenibilità, riciclaggio). Già la città in cui nasce è lo specchio di una contraddizione: Seattle, tre milioni e mezzo di persone, il boom industriale e la vivacità intellettuale (è la città più acculturata d’America) puntellate dall’insofferenza giovanile (da Jimi Hendrix a Kurt Cobain). Non è un caso che quando i Grandi del Wto
celebrano le magnifiche sorti e progressive del neocapitalismo - è il 1999 - si trovano contro appunto il popò lodi Seattle, che si battezza in un assalto proprio a uno Starbucks. Dirà Schultz: “Che rabbia. Mica puoi protestare contro una lattina di Coca o una bottiglia di Pepsi. E invece Starbucks è allo stesso tempo un marchio che sta in ogni dove e un posto dove puoi andare e, trac, spaccare una vetrina”.
Schultz è l’uomo che ha fatto la fortuna di Starbucks. Quando diventa amministratore, 1982, cerca di convincere i proprietari del marchio, che vende caffè macinato, a servire anche qualche tazza. L’illumuiazione in un viaggio a Milano; la città dei caffè l’ha conquistato. Sei pazzo, gli rispondono: il caffè si beve in casa. Schultz s’è dovuto comprare l’azienda per convincerli del contrario. Riuscirà?

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