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La Repubblica

Alcol ... Dalla civiltà del bere allo stanco rito di massa... Un tempo, dice un amico guardando dal suo balcone, verso le undici di sera, la famosa piazza romana sottostante, non dicevamo movida, dicevamo deboscia: ricordi?. Sì, ricordo: il termine deboscia - francesismo da “debauche” - era molto usato nelle conversazioni delle famiglie borghesi, a significare esattamente quello che il mio amico ed io stiamo osservando adesso nella famosa piazza romana. Giovani vestiti come i forzati della Caienna nel film Papillon (stracci intrisi di sudore, monili in forma di bracciale o catena che ricordano i “ferri” dei bagni penali), e molti altri addirittura a petto nudo. Quasi tutti, uomini e donne, con una mezza bottiglia di birra in mano, mentre altri bevono a turno e festanti da una bottiglia più grande, whisky o brandy o vodka. Una parte dei giovani sono già ubriachi, e tra un paio d’ore alcuni di loro saranno probabilmente, come abbiamo letto nelle cronache di questi giorni, sulla soglia del coma etilico. Deboscia, appunto, che i vocabolari descrivono come “depravazione dei costumi”. Oppure un tale vuoto, una tale demenza, una tale disperazione, cui altro non può seguire se non la spinta al degrado e all’ottundimento. Fa ridere pensare che solo adesso, e solo in poche città d’Italia, la vendita delle bevande alcoliche ai minori sia stata proibita. Ormai la misura servirà infatti a poco. Terrà forse lontane dallo stomachevole spettacolo che si svolge ogni sera nella famosa piazza romana, le piccole pattuglie di ragazzi sotto i sedici anni. Ma per il resto, tutto rimarrà tale e quale: l’ubriachezza di massa, gli schiamazzi notturni, l’abbrutimento. Altro che movida: la vivacità, l’onda delle speranze, la caduta dei tabù sessuali che animarono le strade di Madrid immediatamente dopo la morte di Francisco Franco. L’alcol? No, il problema non sta nell’alcol. Chi ne conosca bene l’uso, e quindi l’usi accortamente, sa bene che l’alcol non degrada. Anzi, come diceva William Faulkner (“civilization begins with distillation”), l’alcol civilizza. Insegna infatti a contenersi, a diffidare delle euforie improvvise, e soprattutto a disprezzare gli ubriachi. Nelle giuste dosi, aguzza l’intelligenza, immette un po’ di calore e d’allegria nelle conversazioni, e bevuto dopo il tramonto aiuta a togliersi di dosso il peso della giornata. Senza dire che è una manna nella conduzione d’un “flirt”. D’altronde, non fosse così, come spiegarsi che per secoli hanno bevuto alcolici le aristocrazie, i pensatori, i grandi artisti, i Marescialli di Francia, Camillo Benso di Cavour, gli Junker prussiani e generazioni di Cardinali? Si potrà obbiettare che nel Settecento inglese di Fielding e Defoe, di Hoghart e Boswell, e nella Francia della seconda metà dell’Ottocento descritta da Emile Zola, l’alcol è esattamente deboscia. Basta pensare alla Gin lane di Hoghart, o all’Assommoir di Zola. Ma insieme ai dannati che si distruggevano con l’assenzio o col gin (“the gin steals your life away”, tuonavano nelle chiese di Londra i pastori anglicani), c’erano poi gli assennati che, avendo imparato sin da giovanissimi a controllarsi, non bevevano smodatamente. E officiando con l’alcol una loro liturgia sociale che spesso serviva a vincere la timidezza (“drinking is romantic, even chic”, diceva Lilian Hellman), ne ricavavano i benefici sopra accennati. Forse che c’erano in Europa altri luoghi, negli anni tra i Dieci e i Sessanta del secolo scorso, più tranquilli e costumati di un buon bar? Bei legni, luci basse (“How dark, how pleasing”), il tenue brusio delle conversazioni ritmato dal tintinnare del ghiaccio nei bicchieri, un pianista che suonava senza strepiti Gershwin, Berlin, Noble e Porter. Nessuno beveva, come vediamo adesso, senza bicchiere, tenendo la bottiglia di birra in mano. Nessuno avrebbe osato alzare la voce. Non c’erano esibizioni Gay & Lesbian, non frastuoni di pop e rock. E quindi, quale piacere nel sistemare la scarpa sinistra sulla sbarra poggiapiedi d’un buon bar, accendere una sigaretta, puntellare il gomito destro sul banco, e attendere trepidi che il barman mescolasse il nostro Martini. E quanta compassione, per gli astemi. Si restava sinceramente addolorati pensando che non avevano mai bevuto un Martini al St. Regis o al Carlyle di New York, al Savoy di Londra o all’Harry’s di Venezia. Che non avevano provato l’ouzo di Mykonos, il malt di Bushmill a Dublino o a Galway, il pastis a Capo Corso, il moquito a Cuba, la caipirinha a Copacabana, il Kyr royal al banco della Closerie de lilas a Montparnasse, il Colonnello al bar del Posta di Cortina, l’Aqvavit al bar dell’Opera a Stoccolma, la Manzanilla Carta Blanca da Chicote a Madrid. Come avevano, gli astemi, senza mai avvicinare un bicchiere di alcol alle labbra, alleviato la solitudine, rimestati i ricordi, istruiti quei veloci, indulgenti e consolanti autoprocessi da cui usciamo sempre assolti, assaporato la canzone di Cole Porter che dice “The fountain of youth / is a mixture of gin and vermouth”? Che cosa avevano fatto una sera di pioggia a Torino, una sera di plenilunio a Lisbona, nell’afa e nella noia profonda di Hong Kong: bevuto acqua minerale e aranciata? No, i buoni bar erano luoghi civilissimi. C’è forse un’esagerazione in quel che sostiene la scrittrice Fran Lebovitz, uno dei lari del mito newyorkese: “È nei bar, nelle conversazioni al bar, che s’è svolta negli ultimi sei o sette decenni la storia delle idee”. Ma c’è anche qualcosa di vero. E adesso che nei pochi, superstiti bar decenti non si fuma più, sicché frequentarli significherebbe sottoporsi alla tortura di bere un alcol senza fumare, non resta - la sera - che versarsi una dose di gin in un recipiente colmo di ghiaccio, aggiungervi un filo sottilissimo di Martini Dry, mischiare, e prima ancora di passare il tutto nel bicchiere adatto, accendere una sigaretta.

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