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La Repubblica

Gusto. Perché il nostro cibo è diventato un mito globale ... Pasta, pizza, formaggi. Tutti vogliono i prodotti tricolori e spesso li clonano. Ecco la storia di questi simboli della bontà... Basta etichette reticenti. D’ora in poi il Made in ltaly sarà tutto italiano o non sarà. Dal 15 agosto i prodotti realizzati anche solo in minima parte all’estero non potranno vantare l’ambitissimo marchio. Lo stabilisce la nuova legge sullo sviluppo economico. Se l’Europa non avrà nulla da ridire sarà un passo importante verso la tutela delle nostre eccellenze. Riconosciute da tutti, delocalizzate da molti e falsificate da troppi. L’olio di Pompei spremuto a freddo nel Maryland, il Parmesao cagliato nel Nordeste del Brasile, la mozzarella di Dallas, i Pachino coltivati a Pechino. Il Made in ltaly alimentare vanta più tentativi d’imitazione della Settimana Enigmistica. Con un giro d’affari di 56 miliardi di euro l’anno. E all’estero solo un prodotto su quattro è autenticamente tricolore. Tutti vogliono italian food, ma comprano soprattutto italian sounding. Si chiama così quella denominazione di origine incontrollata che inonda il mercato di falsi dal nome improbabile. Non italiano, ma all’italiana. Regianito, combozola, tinbonzola, pardano, gradano e persino un rinascimentale ed estetizzante parmigianino. Nonché Daniele, prosciutto senza il San. Per finire con la Mozzarina, autentica bufala che spopola nei supermercati canadesi. Eppure queste clonazioni sono la prova inconfutabile che la nostra gastronomia ha conquistato il mondo con i suoi cibi simbolo. A cominciare dal più imitato di tutti, la pizza, bandiera planetaria dell’Italia da mangiare. È dalla fine del Settecento che questo capolavoro della cucina povera ha in iziato la sua ascesa, dai vicoli napoletani ai quattro angoli del globo. Parente alla lontana del nan indiano, della pita araba, della tortilla ispanica, la pizza ha stracciato tutte le concorrenti. È già famosa quando Alessandro Dumas visita Napoli nel 1835 e ne rimane entusiasta. Da sofisticato gourmet, il padre di d’Artagnan coglie che dietro la sua apparente semplicità questo cibo nasconde una estrema raffinatezza. Croccante fuori e morbida dentro, elastica e resistente, né troppo alta né troppo bassa, né umida né secca, né cruda né cotta. Una sorta di quadratura del cerchio culinario, una leccornia strutturalista degna di Lévi-Strauss. Una coincidenza degli opposti che racchiude in pochi centimetri di pasta lievitata un intero capitolo della fisiologia del gusto. In realtà la madre di tutti gli streetfood ha letteralmente colonizzato l’immaginario alimentare del nostro tempo al punto da dare il nome a un sapore autonomo che non ha più nulla a che fare con l’originario disco di acqua e farina. È il cosiddetto gusto pizza che aromatizza di tutto, dalle patatine al pop corn. Certo più si allontana dal suo luogo di nascita, più la pizza diventa un’approssimazione che spesso dell’originale conserva solo la parola. In Mongolia nelle pizzerie di Ulaanbatar la fanno col montone e a Mumbai sulla pizza Bollywood piovono pollo, mandorle e curry. Ma al di là di tutte le nefandezze perpetrate in suo nome restano costanti le ragioni di una fortuna globale. In realtà la pizza è un software compatibile con i più diversi hardware gastronomici. Ed è proprio questa predisposizione al meticciato che la fa essere di casa a Nashville come a Tallin, a Lagos come a Sidney. Non diversamente dalla pasta. Che è molto più di un cibo. È uno dei simboli identitari del Belpaese. “Maccaroni” è stato a lungo sinonimo di italiani. E anche se spaghetti, fettuccine, taglialelle si mangiano in tutto il mondo e in tutte le salse, dal pomodoro al tandoori, dalla mostarda ai quattro formaggi, il loro nome resta rigorosamente italiano. Proprio come i tempi musicali, che ovunque si chiamano allegro, andante, minuetto, prestissimo. Cibo povero per eccellenza, da mangiare con le mani, come faceva il popolo nell’Ottocento, ma anche “morceau de roi” come i timballi di gattopardiana memoria. O come i vermicelli che Gioacchino Rossini si faceva spedire a Parigi per sublimarli con tartufi e foie gras. Emblemi incontrastati del Made in Italy alimentare, bucatini, penne e lasagne hanno conquistato il mondo surfeggiando sull’onda vincente della dieta mediterranea. E la cottura al dente ha rivoluzionato la sintassi del gusto. Indicando una terza via tra il crudo e il cotto. Un’arte del compromesso tipicamente nostrana. Che si sposa con la velocità della preparazione e con una trasformistica capacità di adattarsi a tutti i condimenti. Un piatto per tutte le stagioni. dall’iperlocale al superglobale. È questa la ricetta vincente dell’Italia da mangiare. I sapori delle piccole patrie che diventano icone di un gusto planetario affamato di segni ad alta definizione. Di tradizioni, di localismi, di tipicità. Ovvero di differenze che parlano di una storia millenaria. Come nel caso del Parmigiano, il formaggio più famoso del mondo. E anche il più antico. Già Apicio, il Brillat-Savarin dei romani, parla del caseus parmensis. Ma è Boccaccio a farne un simbolo dell’identità italiana che sta nascendo. Sul piano linguistico come su quello gastronomico. Nel Decameron il mitico paese di Bengodi, quello dove chi più dorme più guadagna, non è altro che una montagna di Parmigiano dalla quale piovono maccheroni. Chi più ne piglia più ne porta a casa. Così la gastronomia diventa utopia. Un sogno di abbondanza per un paese della fame. Poetica del piacere, retorica del dovere, sintassi del gusto. La filosofia del vivere all’italiana comincia a parlare in volgare. La fama di questo monarca assoluto dei formaggi attraversa i secoli, potendo contare spesso su testimonial d’eccezione. Come Molière che da vecchio preferiva il Parmigiano al più corroborante dei brodi. Mentre il saggio dottor Livesey, uno dei protagonisti i dell’Isola del tesoro di Stevenson, porta sempre con sè nella sua tabacchiera come preziosa riserva di energia un pezzo di “parmesan cheese”. In realtà il Made in Italy, non è fatto solamente di monumenti collettivi, di tradizioni gloriose quanto anonime, sulle quali oggi i consorzi cercano di imporre il copyright per difenderle dalla pirateria alimentare. E dunque non solo culatello, prosciutto, mortadella, mozzarella. Ma anche gelato, espresso, cappuccino che non sono semplicemente sapore, ma anche innovazione e tecnologia. Macchine, idee e know-how indispensabili a produrre quel gusto che ha conquistato il mondo. Invenzioni che hanno spesso un autore con tanto di nome e cognome. Come Martini & Rossi, Motta, Cipriani, Cinzano, Barilla, Cirio. E, dulcis in fundo, Ferrero, il dolciere di Alba, che nel 1964 mondializza la gloriosa tradizione piemontese della gianduia creando la Nutella. Una categoria dello spirito contemporaneo. Figlia prediletta del pensiero debole. Un barattolo di consolazione alla portata di tutti. La fila dei vasetti di questo insostituibile prozac alla nocciola, venduti ogni anno, è lunga quarantamila chilometri. La circonferenza della terra misurata con il metro langarolo. In questo cortocircuito fra villaggio globale e globo dei villaggi sta la formula magica dell’italian food.

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