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La Repubblica

Francis Ford Coppola ... A trent’anni i trionfi del “Padrino” e di “Apocalypse Now”. Adesso, a settantuno, si rimette alla prova su temi autobiografici, come il rapporto col padre, in piccole pellicole “che posso pagare con qualche spicciolo “. “D’altronde”, confessa, “da tempo ormai a mantenermi non è il cinema ma sono i vigneti in California che più volte mi hanno salvato dopo i miei flop al botteghino”... La sua vita di regista è un percorso a rovescio. Prima, sono venuti i trionfi del traguardo. Poi, al tramonto, le nuove “prime volte”. Lui si paragona a Benjamin Bottom, il film tratto dal racconto di Scott Fitzgerald sul personaggio nato decrepito e risucchiato anno dopo anno verso l’infanzia letale. Potrebbe anche chiamare in causa, date le robuste ascendenze italiane (tre nonni di Napoli, uno della Basilicata), un’asprigna fiaba antecedente di Luigi Capuana, “Tirititùf”, già con una bella capriola all’indietro: da una sterile senescenza, sia pur sovrana, ai vagiti di culla, spilli di futuro. L’anagrafe artistica di Francis Ford Coppola, settantuno anni appena compiuti, si srotola in due giri di boa. Il primo è attorno ai trent’anni,quando, “già sposato, con figli”, dopo una decina di stagioni trascorse a girare “piccole pellicole personali”, col progetto di “continuare con innocui horror stile anni Cinquanta”, gli mettono in mano il libro di Mario Puzo, “Il padrino” (“una storia molto interessante, sa?”, ammicca il regista), da cui trarrà nel 1972 il titolo epocale della nuova Hollywood, primo capitolo della saga completata con i sequel ‘74 e ‘90: “È il film che non avrei mai sospettato di girare. Ha cambiato la mia vita: da un giorno all’altro mi ha reso famoso, rubandomi il futuro”. L’altro giro di boa è adesso: “Da giovane ho realizzato pellicole che in genere si affrontano da adulti: “La conversazione” nel ‘74, “Apocalypse now” nel ‘79. Avevo anche messo in piedi, quasi subito, con George Lucas e pochi soldi, gli Studios Zoetrope a San Francisco, appassionante incognita produttiva, per la quale il Torino Film Festival mi ha reso omaggio lo scorso novembre. Solo da qualche anno ho ripreso a dirigere film che avrei voluto realizzare agli inizi, cominciando, nel 2007, da “Un’altra giovinezza”, da Mircea Eliade, girato con tecnologie all’osso, imparate ai miei esordi dal genio del cinema low cost Roger Corman. Lo considero il primo titolo della mia seconda carriera, in cui mi sto dedicando a piccoli film, che posso pagare con qualche spicciolo”... ...“...Da tempo, d’altronde, non sono i film a assicurarmi l’esistenza, ma i vigneti, che più volte in passato mi hanno salvato dalla bancarotta cinematografica”. Tra i numerosi vip in celluloide, da Depardieu alla Bouquet da Stallone a De Niro, che hanno investito in colture o ristoranti, lei è quello che ha opposto la più decisa controffensiva viticola ai capitomboli del grande schermo: i fiaschi dei film salvati dai fiaschi di vino? “Il mio diagramma artistico è un saliscendi febbrile, con tre o quattro sprofondamenti, tra i quali il flop di “Un sogno lungo un giorno” o la travagliata lavorazione di “Apocalypse Now”, da cui mi ha ogni volta risollevato la vigna californiana di NapaValley, il mio kolossal più riuscito: dodici milioni di bottiglie l’anno, “Rubicon” e “Zinfandel”, dai dodici ai quaranta dollari l’una. E pensare che la mia prima intenzione, quando ho acquisito quella proprietà con mia moglie Eleonor, nel 1973, non era di produrre vino per il commercio ma solo un po’ per la famiglia, sull’esempio dei miei nonni. Adesso però i profitti in bottiglia superano alla grande quelli in pellicola. E mi permettono di osare nel cinema, senza più problemi, assumendone allegramente ogni rischio. Non riuscirei mai a concepire film indenni da rischi. Il cinema domanda temerarietà: d’investimenti e di sperimentazione. Per me ha significato grandi guadagni e grandi perdite. Sono oggi all’opposto di Hollywood, dove i film vengono monetizzati (“movie” uguale “money”): tanto sono costati, tanto devono riportare in cassa”. Il vino, per lei, è solo un salvagente cinematografico? “No, è un modo di stare insieme, di rendere conviviale il lavoro: ogni film è una nuova famiglia, ci riuniamo attorno a grandi spaghettate e buone bevute. È anche una filosofia. Quando sul set il clima è iperteso e le riprese sono incidenti a catena (e io ne so qualcosa...), il film finisce per risultare “d’ottima annata”. Come per il vino. Ma il budget dei miei film non dipende, purtroppo, dalle vendemmie...”...

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