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La Repubblica

Cucina di Gallura ... Trittico di mare, vento e granito... Da una parte la rincorsa al lusso dell’aragosta, dall’altra l’ostinata difesa della cultura gastronomica locale. In questo lembo di Sardegna si gioca una battaglia silenziosa, fatta di ingredienti originali e ricette tramandate: il cinghiale col finocchietto selvatico, la spigola col mosto d’uva, il trionfo di miele e zucchero nei dessert... È un trittico di umori naturali, il segreto della cucina gallurese. L’impasto incredibile di mare, vento e granito, si specchia nei piatti che assomigliano al proprio terroir come in poche altre realtà. Colori e odori, paesaggi di sfrontata bellezza e sublimi concentrazioni di gusti, la Sardegna più insopportabilmente mondana e quella più schiva e colta, la povertà che obbliga a sfruttare ogni molecola di sapore e la ricchezza che manda in passerella la “cucina sarda internazionale” (come purtroppo si legge in certi menù). Se esiste una data che segna la frammentazione della tradizione culinaria gallurese, quella è il 1962, anno della fondazione del Consorzio della Costa Smeralda. Da lì in poi, il cappuccio geografico della Sardegna, con Oschiri e San Teodoro che chiudono a sud, ha subìto una lenta implosione: da una parte, la rincorsa al lusso (monetario) gastronomico simbolizzato dall’aragosta, dall’altra l’ostinata difesa della cultura dell’appartenenza. Una lotta silenziosa e caparbia, come si usa da queste parti, fatta di ingredienti originali e ricette tramandate. Ma guai a pensare che tutto questo si traduca in una cucina immobile. Al contrario, le materie prime del territorio invogliano interpreti storici e giovani talenti ad aggiornare la tradizione senza svilirla.
A benedire questa evoluzione salvifica, le due vestali della cucina gallurese Rita Denza e Gavina Braccu, che hanno magnificamente amministrato e divulgato il denso patrimonio enogastronomico della loro terra nell’ultimo quarto di secolo. Nei menù dell’hotel-ristorante “Gallura” di Olbia come in quello del “Calajunco” di Porto San Paolo, mani di donna domano la rustica carne di cinghiale con il finocchietto selvatico o esaltano l’eleganza della spigola con il mosto d’uva. Zucchero e miele, infatti, si accoppiano nella tradizione culinaria gallurese, inserendosi nei piatti in maniera bizzarra e spettacolare. A dispetto della tendenza ad azzerare le dimensioni gustative più complesse, ormai invalsa nella cucina quotidiana, qui strenua è la difesa della nota zuccherina nei ravioli, nella gelatina di piedi di maiale, nelle focacce coi ciccioli, perfino nel sugo di pomodoro. E poi i dessert, vero trionfo del gusto dolce-dolce, seppur temperato dall’accento citrico delle scorze d’agrumi o dalle note esotiche delle spezie - chiodi di garofano e cannella su tutti - che si scelgano gli “acciuleddi” (treccine di pasta dolce cotte nel miele) o le frittelle lunghe (fino a un metro, cosparse di zucchero e miele). Aragosta o capretto, zuppe o formaggi acquistano un senso compiuto, se accompagnati da un bicchiere di vino del territorio. Se la Sardegna ha guadagnato posizioni importanti nelle guide enologiche grazie a produzioni di alta qualità sparse dal Campidanese all’Ogliastra, la Gallura fa rima con Vermentino, vitigno a bacca bianca importato dalla Liguria, che qui si è trasformato in un elegante vino Docg, profumato di vento e mare. Se poi non sapete scegliere tra Costa Smeralda e Costa Paradiso, rifugiatevi in quel di Arzachena, dove il suo cittadino onorario Peter Gabriel ha ristrutturato un incantevole albergo-rifugio tra gli alberi, davanti al mare. Amanti del porceddu, prego astenersi: qui, la cucina è rigorosamente vegetariana.

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