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La Repubblica

… I piatti antichi del nostro futuro … Pensare alle culture indigene e tanto più alle loro cucine evoca nell’uomo occidentale un senso di esotismo esagerato, quasi fossero elementi di cultura gastronomica inventati. Dietro questa visione superficiale c’è un senso di superiorità tipico del colonialista, ma anche una forma mentis scolpita dall’economia di mercato e dall’utilitarismo dell’uomo consumatore: tutto ciò che non si può vendere o comprare non è degno, e tutto ciò che puzza di vecchio o anormale si butta nella spazzatura. Le stesse culture indigene spesso, quando vengono a contatto con il colonizzatore o l’uomo di città, tendono a fare propria questa visione, affascinate dalla finta patina di modernità e relative comodità di cui sono ammantate le nostre abitudini. Le cucine ancestrali, risultato di secolari economie di sussistenza, vengono viste - sia dai loro protagonisti sia dal “civilizzatore” - come il retaggio di un passato difficile e quindi scartate con molta leggerezza. Tali economie di sussistenza sono ritenute marginali. Gli organismi internazionali per decenni hanno promosso uno sviluppo che non ne contemplava la presenza, finendo per devastarle. Invece guardando a queste culture e alle loro tradizioni gastronomiche non soltanto comprendiamo i miracoli che può fare lo spirito di adattamento, ma individuiamo nuove vie per combattere fame e malnutrizione. Si tratta di saperi ricchissimi, spesso in mano alle donne, le quali hanno saputo creare un patrimonio di modi e tecniche di preparare il cibo in perfetta armonia con la biodiversità dei loro territori, ingegnandosi a fare tanto con poco, forti di una sacralità del cibo che noi abbiamo completamente dimenticato. Le loro ricette insegnano il riuso e il riciclo, sanno rendere piacevole la natura selvaggia, sono figlie di un mondo dove non esiste solo il prezzo del cibo ma anche i suoi valori più profondi: la reciprocità, il dono, il senso di comunità. Queste culture gastronomiche sono portatrici di tutte le cose che stiamo disperatamente cercando di reinventare per uscire dalla crisi in cui siamo piombati. Sostenibilità, corretto sfruttamento di risorse ed energia, cibo locale e stagionale: la loro intima connessione con la natura ribalta la visione dell’uomo “civilizzato”. Queste culture sono più che moderne: proiettate nel futuro. Durante la scorsa edizione di Terra Madre ho detto che sarebbero state le protagoniste della terza rivoluzione industriale. Due anni dopo, mentre mi appresto a rincontrarle, confermo e rilancio la tesi, perché il valore della diversità che rappresentano, la quantità di saperi semplici ma geniali, la loro visione olistica ci aiuteranno a uscire dal vicolo cieco. E la cosa più importante è che queste culture danno piatti buoni. Sono un altro modo per dichiarare la nostra prossima battaglia di civiltà: il diritto al buono e al bello per tutti, poveri e ricchi, nativi o no.

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