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La Repubblica

Se anche il padano Zaia va al ristorante cinese … Di giorno, armato di scodelle e forchette, si batte per la polenta con gli osèi e di sera gozzoviglia con gli jiaozei. Al pomodoro di Pachinoil prode Luca Zaia preferisce lo zhongguò cài di Pechino. Così il governatore del Veneto soddisfa la testa padana con il ventre cinese. Ma gli osti padovani lo hanno beccato, anche la sera di Capodanno, con il nian gao in bocca. E hanno perciò scritto al “Mattino di Padova” una lettera di protesta etnica firmata dall’Appe, (Associazione provinciale pubblici esercizi) che è l’Istituzione del cappone, la Borsa dei tortellini, la Wall Street del coeghin col puré, il sancta sanctorum del Valpolicella.
Questi arrabbiati ristoratori, ormai debilitati dai bassi prezzi del desco sino-leghista, addirittura denunziano che, arrivando al Wok-sushi - 420 posti a sedere sulla statale del Santo a Cadoneghe - Zaia viene accolto con il doppio inchino di Nanchino. E non gli dicono neppure ciao ma ni hào. Persino lo chiamano familiarmente Tsa-ja invece che “signor Zaia dott. Luca”. Certo, “è libero – continuano - di andare e comportarsi come crede”, ma “con quale soddisfazione il governatore si batte in difesa dei saporiti prodotti veneti?”. Ovviamente noi solidarizziamo con lo Tsa-ja piuttosto che con lo Zaia e ci fa piacere notare che anche tra i fanatici padani l’ideologia mostra la sua natura imbonitoria. E difatti, quando era ministro dell’Agricoltura, il Catone rurale spiegò a un allibito giornalista del “Guardian” che l’Italia autarchicamente voleva e doveva tornare alla tavola tutta italiana. E gridava “viva lo spumante” e “ abbasso lo champagne”. Pure annunziò che nelle cucine leghiste era già stato preparato il kebab padano negli ingredienti e anche nel nome: muntun afetà.
E però il maggiore contribuente dell’opulenta Vicenza è un imprenditore cinese. E anche il proprietario del Wok Sushi, il signor Marco Hu Lishuang, è un grande sostenitore politico di Zaia, al punto da dichiarare al “Mattino” “io sono leghista” anche se è lecito pensare che questo campione dell’integrazione sarebbe stato mafioso in Sicilia, camorrista a Napoli, papalino a Roma. E’ probabile che il bravo cinese abbia interiorizzato il codice della globalizzazione all’italiana. E’ insomma un genio di antropologia partecipata. Si sentono invece traditi dal loro governatore e da quegli imbattibili dieci euro a pasto nel Wok Sushi, tutti i vivandieri patavini e perciò sugosamente dicono: “Crediamo abbia delle responsabilità e delle rappresentatività (!) ben precise”. Dunque lo ammoniscono e si dolgono, non gli concedono l’ironia e gli ricordano “il dovere di rivolgere, con coerenza, le più accurate attenzioni all’oca, ai radicchi, al pollo, alle erbette, al prosecco...”.
Ha la lingua biforcuta lo Zaia che pure amarono e sfamarono. E tuttavia ancora lo invitano a tornare “a frequentare i nostri locali. Assieme al calore familiare e a eleganti tavoli (non striminziti e non self service) troverà e degusterà vini e cibi con prodotti della nostra meravigliosa agricoltura, di quella terra che è anche la sua, con accattivanti ricette non di importazione”. Non è forse lo stesso Zaia che, con il suo partito, propose nell’aprile scorso di abolire per legge le insegne alimentari in lingue extracomunitarie? Volevano tradurle in italiano o, ancora meglio, nei vari dialetti locali, per farla finita con sashimi, kebab e fagottini vari, sostituiti con pesse cruo a Verona, piecoro fatto a felle a Napoli, sfinciuni a Palermo... E gli osti sfiancati si erano illusi che almeno a Padova Zaia strozzasse davvero quelle concorrenziali cucine dei cinesi, dei tailandesi e dei musulmani. E invece bisboccia da loro e a prezzo vile. E però non è solo nell’economia gastronomica che la Lega agisce come il fariseo Nicodemo il quale, come racconta l’evangelista Giovanni, di notte ascoltava Gesù e di giorno si mostrava rigoroso osservante dei precetti ebraici. Anche nell’industria e nell’agricoltura la Lega ricorre a quegli stranieri che disprezza, non può fare ameno di loro come Tsa-ja non può fare a meno della grappa di rose: “Al leghista non far sapere quanto è buona la meiguijiu con le pere”. Ma forse la colpa di tutto ce l’ha, come sempre, il fotografo del “Mattino”, il paparazzo insomma che, al Wok Sushi, senza chiedergli come mai lo ha icasticamente fissato in un’immagine neoglobal da fine Quattrocento, da bagordo sino-sibarita: “Io no t’ ho domandato / se se’ cristiano o se se’ saracino, / o se tu credi in Cristo o in Apoffino...”. E Zaia, come nel Morgante, gli ha mostrato che non crede tanto nella Lega ma “credo nella torta e nel tortello: / l’uno è la madre e l’altro è il suo figliolo; / e’ ‘l vero paternostro è il fegatello”.

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