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La Repubblica

Le nuove leggi del consumo ... Perché tutti vogliono gli oggetti “status symbol” ... Il termine shopping entra stabilmente negli usi linguistici degli italiani tra gli anni 70 e gli anni 80. Per la verità già nel 1939 lo scrittore-giornalista Ugo Ojetti ne aveva tentato l’importazione, italianizzandolo come imponeva lo stile fascista e introducendo (senza fortuna) il neologismo “bottegare”. Ma è solo con il passaggio epoca- le dall’epoca del produttore” a quella del “consumatore” che l’espressione “fare shopping” scalza prepotentemente le più prosaiche “fare compere” o, peggio, “fare la spesa”. E non è solo una contaminazione linguistica anglofona.
E uno spostamento pesante di valore all’interno dell’immaginario collettivo. Una ricollocazione mentale della natura del consumo: quello che era un aspetto necessario della grigia quotidianità, un’incombenza, talvolta una fatica accompagnata dal sacrificio dell’esborso (la”spesa”, appunto), diventa ora una componente edonistica dell’esistenza. Una forma nuova della relazionalità, in cui il piacere del rapporto visivo e tattile con le merci sostituisce la precedente socialità, strutturata sul rapporto diretto tra le persone. E in una certa misura ne costituisce il risarcimento per la perdita. Nella fantasmagoria dello shopping center e della città-vetrina, si profila la figura delflt2neurpost- moderno, in perenne transito nell’universo delle merci contemplate prima che appropriate con la disincantata consapevolezza che nessuna di esse soddisferà il desiderio, ma ognuna offrirà una traccia labile di piacere.
I numeri, a questo proposito, parlano da sé. Nel decennio che va dalla prima metà degli anni 70 alla prima metà degli anni 80 i consumi in genere, al netto dell’inflazione, fanno segnare un’impennata del 50%. Per l’abbigliamento il balzo è addirittura del 91%. Nel decennio successivo - tra il 1984 e il 1994 - la crescita continua, con un incremento oscillante intorno al 25%. Poi si stabilizza su questi valori elevati (all’incirca il doppio rispetto ai “ruggenti” anni 60), ma con un costante spostamento del baricentro verso i beni voluttuari, quelli che veicolano simboli di status o generano un’immagine di sé à la page. Sulla scia della “Milano da bere” è tutto il Paese a ricercare nelle bollicine la vertigine della ristrutturazione iper-moderna della propria identità sociale. A fronte di un andamento assolutamente piatto della curva dei consumi alimentari, crescono la spesa per abbigliamento, per elettrodomestici e mobili, e s’impenna letteralmente quella per le comunicazioni e la ristorazione. Poi la crisi. Come impatta la crisi sulla dinamica dei consumi, a partire dal 2007-2008? In modo bizzarro. La spesa delle famiglie subisce una caduta pesante. Nel biennio si oscilla tra un quasi -5% aI sud e un -2/3% al nord. Ma è una riduzione selettiva. “All’incontrano”, per così dire. Cadono, anche pesantemente, i consumi di beni essenziali, a cominciare dall’alimentazione. Tengono quelli voltittuari (l’elettronica addirittura continua a crescere). Il che si spiega soltanto con la dimensione “mentale” della crisi del ceto medio che, di fronte alla minaccia di impoverimento - o all’impoverimento vero e proprio - reagisce difendendo i propri simboli di status: il consumo di beni che considera “relazionali”, perché implicati con l’immagine di sé, con l’autostima, ma anche con il mantenimento della rete di relazioni consolidata. Rinunciando alla carne tutti i giorni, ma continuando a frequentare la palestra. Acquistando all’hard discount il cibo, ma comprando gli abiti di sempre alle figlie... L’abitudine del flaneur è dura a morire. E costruisce una prigione da cui è difficile uscire.

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