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La Repubblica

Altre bollicinie. Gamay, Fiano, Moscato e Passerina per un brindisi sotto le stelle ... “Il peggior vino del contadino è migliore del miglior vino d’industri”. Presa alla lettera, l’affermazione di Gino Veronelli fa sorridere: nel secolo scorso, in campagna regnavano povertà e ignoranza mentre la città garantiva benessere e cultura. In realtà, conoscendo la finezza dell’uomo e il suo talento visionario, la provocazione andava letta come un atto d’amore nei confronti della civiltà contadina, a lungo schiacciata, dimenticata, irrisa. Sarebbe felice, Veronelli, di sapere che il vino contadino sta tornando alla ribalta spinto da una miscellanea di sentimenti e nuove conoscenze, consapevolezza e angoscia del futuro. Per molto tempo, il vino fatto "come una volta" è stato quello ordinato in damigiane dal parente dell’amico (o viceversa), acquistato senza troppo sapere se sull’uva era stato dato solo il verderame o quelle nuove polverine rosa che tenevano lontani gli insetti, imbottigliato guardando la luna per averlo fermo o mosso. Quando arrivava la primavera, scendendo in cantina si trovavano cocci di vetro e schizzi di vino, colpa di qualche bottiglia esplosa per una rifermentazione tardiva, attivata dai primi tepori.

Il nuovo vino contadino è ripartito da lì, da quell’inconsapevole esercizio di ribellione enologica, domato solo con l’inganno. Da una parte, il metodo champenoise (il nostro “classico”), che prevede l’aggiunta di lieviti esogeni e la sboccatura finale per eliminarli. Dall’altra, la presa di spuma in autoclave (metodo Charmat) più spiccia ed economica. La terza via si fa beffe di entrambe le pratiche. Lo chiamano metodo ancestrale e non prevede trucchi, se non l’abbassamento tecnologico della temperatura per bloccare la fermentazione senza aspettare i rigori dell’inverno, ormai impossibili da prevedere per colpa del riscaldamento globale. Il resto lo fanno il tempo, la qualità dell’uva e la maestria del vignaiolo. La parola “naturale” domina tutto il processo. Più che i comandamenti del biologico e della biodinamica contano la faccia e le mani del contadino. Più che le certificazioni, il rapporto fiduciario. Se la grande distribuzione ha cancellato la conoscenza del prodotto e il rapporto con i produttori, rendendoci prigionieri di alimenti il cui unico appeal è il prezzo (basso), la piccola agricoltura 2.0 scommette sul recupero di empatia e schiena dritta.

Andrea Gherra, titolare di due locali-culto torinesi - Banco e Consorzio - dove vengono serviti in esclusiva alcuni dei migliori vini ancestrali in circolazione, racconta che non riesce a star dietro alle richieste: “Piacciono perché sono buoni e hanno un’anima, dentro c’è

passione e non solo profitto. Certo, vanno raccontati. E per raccontarli devi conoscere i viticoltori, passare del tempo nelle loro cantine, accettare che le bottiglie siano poche migliaia e che finite quelle bisognerà aspettare. Per fortuna, il numero di produttori sta crescendo e la varietà d’offerta supplisce ai numeri ridotti. Il fascino è anche questo”.

Se i vini contadini del terzo millennio vi intrigano, andate a trovare i loro mentori nelle microaziende dove Pignoletto e Malvasia, Greco e Lambrusco dismettono lo status di uve per trasfomarsi in sorsi da brivido frizzante. Nella notte di San Lorenzo, che il Movimento Turismo Vino dedica alle degustazioni in tutta Italia, un brivido frizzante e rigorosamente naturale benedirà la vostra vacanza.

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