Nel tempo di una quarantena, la sostenibilità è passata dall’essere la speranza per il futuro ad attualità, nel senso che deve essere messa in atto ora e subito e con ogni mezzo a disposizione. Anzi, in molti casi, purtroppo è già tardi. L’emergenza Covid-19, ci ha fatto capire che il ritorno alla natura che, ribellandosi, ha originato un virus sconosciuto e temibile, non può che essere un ritorno al futuro, perché rispettarla e difenderla non è una questione sentimentale, è un investimento per le prossime generazioni. Ma la natura ripara quello che distrugge, e un buon punto di partenza, riflette lo scrittore Antonio Pascale, nei giorni scorsi, sulle pagine de “Il Foglio”, può arrivare dalle pratiche adottate in agricoltura, e nel mondo del vino, e s’intende quelle virtuose, anche quando si parla di innovazioni e ricerche agronomiche e tecnologiche ma anche nella chimica, di biotecnologie, miglioramento genetico, di digitale, di economia agraria, e spesso grazie ai giovani che hanno scelto di portare avanti le aziende di famiglia o i tanti ai quali il Coronavirus ha tolto ogni dubbio se farlo o meno. Lo abbiamo capito riscoprendo il giusto rapporto con il cibo e il valore delle filiere agricole, che non si sono mai fermate, pur in difficoltà.
Perché, come accade da sempre, sono i grandi sconvolgimenti a far mutare le cose. In agricoltura soprattutto, perché la questione riguarda il cibo: siamo ciò che mangiamo. La conseguenza più evidente, è stata la trasformazione del mestiere del contadino, da povero, a rischio, soggetto a obblighi servili, a professione del futuro, capace di attrarre soprattutto i più giovani, studiosi e creativi (la maggioranza delle aziende italiane, però, è ancora condotta da over 65, meno che in Spagna, e con meno ettari che in Germania o in Francia). La brutalità non si cancella certo, sia nei ricordi di chi contadino lo è stato - vivendo il distanziamento per la sua condizione sociale - sia se nella stringente attualità di un Decreto Rilancio che tra le misure ha inserito anche una procedura per regolarizzare una parte dei migranti che vivono in Italia, contro lo sfruttamento in agricoltura. “Un modo per assicurare la mancanza di redditività di cui soffre il settore, è la distribuzione equa del valore lungo la filiera, dai campi al consumatore”, e che dovrebbe essere al centro del racconto di un prodotto, nella comunicazione come nel ristorante di uno chef.
Se c’è un ritorno alla campagna, sostiene Pascale, è perché l’agricoltura è cambiata, e questo non va dimenticato. Dalla fame all’abbondanza, dalla fatica all’high-tech, dalla manualità alla meccazzazione, dalle malattie alla ricerca genetica. Sconfiggendo le piaghe, facendo uscire miliardi di persone dalla povertà - ma altrettante ce ne sono ancora - e migliorando la nostra vita. Tanto che senza che si fosse continuato a produrre per noi, non avremmo potuto restare a casa tutto il tempo che siamo stati in clausura.
Agricoltura moderna significa, sintetizza lo scrittore, “pensare non al proprio orto ma ad una popolazione mondiale in crescita da sfamare; apertura, verso il mondo e i nuovi mercati con cui il nostro orto si deve confrontare; apertura sostenibile: chi torna a fare il contadino deve essere un professionista del mestiere, consapevole del compito che ha, portare nuove idee, sperimentare, innovare”. Pochi sono consapevoli di che cosa è l’agricoltura oggi, delle tecniche che si usano, del perché è importante usarle e migliorarle. Più spesso si sente dire che l’agricoltura moderna inquina e va combattuta. “L’intellettuale che vuole tornare alla terra per conoscere i veri valori della vita, senza conoscere i problemi della terra, finisce male”.
E spesso, nell’immaginario collettivo e diffuso, anche i problemi della terra non sono quelli che pensiamo. La preoccupazione maggiore? Il clima, i patogeni, la desertificazione, il rischio che il made in Italy dipenda dai prodotti importati, ma anche “che rischiamo di perdere le nostre tradizioni, preziose da un punto di vista economico e culturale, perché non riusciamo ad innovare”. La riprova, nella domanda posta da Pascale: “preferite i prodotti di stagione di un vecchio contadino o di un agricoltore moderno? La ricerca non scoraggia gli agricoltori di oggi - all’Italia i bravi ricercatori non mancano, e innovare significa pensare all’ambiente e all’economia - lo fa la scarsa propensione della società italiana, e la burocrazia che blocca l’imprenditorialità. Poi c’è il mito da sfatare: ma veramente si pensa che con l’espressione Bio si possa fare a meno della chimica?”.
Tutti nodi, che, conclude l’autore, il Covid-19 ha fatto venire al pettine. Accanto ai punti di forza che rendono unica l’agricoltura italiana: qualità, eccellenza, sistema di controlli sanitari e ambientali, biodiversità. I dati a disposizione “indicano che forse ci stiamo riuscendo a produrre di più usando meno risorse. Rispetto al passato usiamo meno fertilizzanti, meno agrofarmaci, meno acqua. L’agricoltura di precisione riduce il nostro impatto. Bisogna sperimentare, innovare, investire, integrare i saperi. Una strada giovane è una strada tecnologica. Deve percorrerla anche l’Italia, svecchiare l’immaginario, risolvere i suoi problemi strutturali. È importante: questa strada porta alla liberazione della natura”.
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