Alla fine degli anni Sessanta del XIX secolo, i viticoltori europei, ignari di ciò che accadrà nel volgere di qualche anno, si trovano di fronte ad un piccolo insetto, un afide, destinato a sconquassare la storia del vino del Vecchio Continente. La Fillossera, la peggiore calamità che la viticoltura abbia mai affrontata, in meno di vent’anni ha decimato prima le viti francesi, poi quelle di Spagna, Germania, Austria ed Italia, impoverendo interi territori e facendo sprofondare nella depressione economica migliaia di famiglie. Arrivata dal continente americano, dove in milioni di anni di evoluzione ha instaurato una convivenza pacifica con la vite americana, colpendo perlopiù le foglie, in Europa si è dimostrata letale: attaccando l’impianto radicale, indebolisce la vite, rendendola vulnerabile a funghi e altre malattie, fino a causarne, nel giro di tre anni, l’inevitabile morte.
Ci sono voluti anni di ricerche, studi, prove e qualche errore per trovare una soluzione che, oggi, appare persino banale: innestare le varietà di vite europea, superiori per qualità e resa, sui portainnesti americani. All’epoca, invece, non fu che l’ultima delle risposte tentata dagli studiosi, tra cui nomi che hanno scritto la storia dell’ampelografia, della viticoltura e della botanica come Gustave Foëx, Victor Pulliat e Jules Émile Planchon, solo per citare alcuni dei luminari che hanno letteralmente salvato il vino europeo. Tra le strade percorse, persino il tentativo - costosissimo ed inefficace - di insabbiare fino alle radici le piante di vite, avendo notato che nei terreni sabbiosi la fillossera, sorprendentemente, non aveva attecchito.
È proprio in questi terreni, ma non solo, che la vite a piede franco, e quindi non innestata, è riuscita a sopravvivere, arrivando fino ai giorni nostri, e costituendo quel patrimonio di inestimabile valore storico, culturale e vitivinicolo cui la wine critic Jancis Robinson, insieme alla wine writer Tamlyn Currin e alla Master of Wine Sarah Abbott, ispirati dal lavoro di organizzazioni ed associazioni come Barossa Old Vine Charter, Historic Vineyard Society in California, Lodi’s Save the Old Campaign, Maule’s Vigno project, South America’s Heroic Growers, McLaren Vale Grape Wine & Tourism Associations Old Vine Register e il gruppo Francs de Pied, ha dedicato l’“Old Vine Registry”, un archivio digitale, aperto al contributo di tutti, che raccoglie, cataloga e racconta i vigneti più vecchi del mondo, pre e, ovviamente, post Fillossera.
La vigna più vecchia del mondo, almeno secondo il censimento dell’“Old Vine Registry”, ha più di 600 anni, ed è stata scovata in Germania, su un terrazzamento abbandonato sui terreni di von Racknitz, tenuta che, in passato, apparteneva al monastero di Disibodenberg, alla confluenza dei fiumi Nahe e Glan. Le uve sono quelle di Gelber Orleans, varietà che, a quanto pare, produce uve dal sapore terribile, simile a quello del cetriolo, decisamente inadatte alla vinificazione. Anche la seconda vigna più vecchia si trova in Germania, nella regione di Pfalz: si chiama Rhodt Rosegarden ed ha tra i 350 ed i 400 anni. Pare che esistesse già durante la Guerra dei Trent’Anni, oggi è di proprietà della Rietburg Wine Cooperative, e delle 400 piante produttive ancora ai giorni nostri - per 900 metri quadrati di vigna - la maggior parte sono di Traminer, ma c’è anche qualche pianta di Silvaner.
Potrebbe avere qualche anno in più, ma il condizionale è assolutamente d’obbligo, un vigneto senza nome, a Chachkari, nella regione di Meskheti, in Georgia, prima culla della viticoltura, con piante di varietà autoctone come Meskhuri Sapere, Meskhuri Kharistvala, Tskhenis Dzudzu Tetri. Nel centro storico di Maribor, in Slovenia, c’è un piccolo vigneto di Zametovka, con quattro secoli di storia alle spalle, considerato dal “Guinness Book of Records” come il più antico al mondo ancora in grado di produrre uva. Poco più giovane è il vigneto di Versoaln, la varietà di vite più grande d’Europa e probabilmente la più vecchia al mondo, a Castel Katzenzungen, in provincia di Bolzano: 350 anni sulle spalle, a quanto pare.
Sul podio dei vigneti più antichi d’Italia, quello di Cariano, impiantato nel 1840, e oggi di proprietà dell’azienda biodinamica Aurete: 200 piante a piede franco, sopravvissute alla Fillossera, il 90 % di Raspato nero e il 10% di varietà autoctone non ancora registrate, in un piccolo appezzamento tra il Monte Cecubo e il Monte Falerno, dove i romani producevano il Falernum, ma dove la viticoltura esisteva già dal IV secolo a. C. In Campania, Cantina del Taburno vanta invece un vigneto di Aglianico che si stima abbia 180 anni, pochi in più del mitico vigneto “Dal Re”, piantato in Irpinia nel 1872, e di proprietà di Feudi di San Gregorio, la griffe campana guidata da Antonio Capaldo che qui, nel 2021, ha ospitato la “The Old Vines Conference”, cui prese parte, al fianco di Tim Atkin e Jane Anson, anche Sarah Abbott, mentre quasi tutti gli altri messi in fila dall’“Old Vine Registry” sono post Fillossera, e quindi piantati dal 1872 in avanti.
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