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L’espresso

Va’ dove ti porta il vino ... Le bottiglie italiane non sono mai state così apprezzate nel mondo. Da consumatori sempre più esigenti. Ecco la mappa dell’eccellenza, alla vigilia della più grande fiera di settore ... Primo, il Chianti, seguito dal Lambrusco, dal Vermentino, e dalla Barbera: è la classifica sulle preferenze degli italiani negli acquisti di vino in termini di valore nella grande distribuzione. Se si tiene conto del numero di bottiglie vendute, invece, il Lambrusco supera il Chianti e la Bonarda supera la Barbera. Tutti vini con una precisa connotazione d’origine regionale, come quelli che seguono nella classifica dei preferiti: il Montepulciano d’Abruzzo, il Nero d’Avola, il Müller Thurgau, il Morellino di Scansano, il Dolcetto. E, tra i vini emergenti, cioè tra quelli che rispetto agli anni scorsi guadagnano favori, emergono l’emiliano Pignoletto e il sardo Cannonau; i campioni della crescita negli ultimi cinque anni sono tuttavia il Vermentino, il Prosecco (vedi articolo a pagina 134) e la Bonarda, mentre hanno perso posizioni il Trebbiano, il Nero d’Avola e il Merlot. Tutto questo dice l’indagine che ogni anno Vinitaly commissiona all’Istituto Iri, che per il 2013 evidenzia un calo del 6,5 nel numero di bottiglie vendute, ma un aumento del 3,1 per cento del valore complessivo. A conferma che in Italia, al ristorante come in enoteca o al supermercato si beve meno vino ma si beve meglio e si spende quindi di più, secondo una tendenza ormai consolidata nei paesi di più lunga tradizione, come Francia e Italia, dovuta alla crisi economica e alle leggi sui limiti alcolici e a scelte salutistiche. In ogni caso, la qualità media del vino cresce, il consumatore è più informato, più attento, e il vino si beve più spesso che un tempo al bar e come aperitivo, oltre che a tavola a casa e al ristorante. Come sottolineava qualche tempo fa Riccardo Cottarella, enologo principe e presidente dell’Assoenologi: “Siamo di fronte, oggi, ad amanti e studiosi del vino più che a consumatori, e come tali acculturati, appassionati, esigenti e, a volte, fanatici e “tifosi”. Prima di degustare un vino conoscono già vita morte e miracoli delle uve da cui deriva, dei vigneti, delle caratteristiche pedoclimatiche, dell’andamento della stagione, dell’enologo e dei prezzi”. Vale per il mercato italiano, tutto sommato di più facile e immediata lettura, vale soprattutto per il mercato globale che, mutando rapidamente di dimensioni e confini, impone alle aziende un’attenzione e una prontezza di risposte inimmaginabili sino a pochi anni fa. Perché l’imperativo per tutti è esportare, sempre di più e a prezzi remunerativi. “Se il Pil italiano seguisse le performance di crescita media del 6,5 per cento annuo del nostro vino all’estero, avremmo risolto da tempo i problemi del Paese”, ha detto Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere, presentando la 48esima edizione di Vinitaly, a Verona dalli al 9 aprile (vinitaly.com), ormai la più grande fiera mondiale del settore, insieme “stati generali” e gigantesca kermesse non solo per gli addetti ai lavori ma anche per i consumatori più curiosi. E in effetti i numeri, a saperli leggere, paiono indicare che la grande paura che ha pervaso il mondo del vino da Nord a Sud, fra il 2005 e il 2010, è passata: l’Italia è il secondo paese produttore, con una crescita del 15 per cento nel 2013 rispetto al 2012, grazie soprattutto all’irresistibile ascesa del Prosecco, si conferma il primo paese esportatore in volume, anche se non per valore, che pure è in crescita. Continuano a essere di segno positivo i fatturati dell’export verso i principali paesi di sbocco, e cioè, nell’ordine, gli Usa, la Germania, il Regno Unito, la Svizzera, il Canada. Sta bene allora, allora, il vino italiano? Tutto sommato sì, prevale un certo ottimismo, nella consapevolezza che certo non è il caso di abbassare la guardia considerato quanto sono agguerriti i concorrenti. “I nostri competitori più temibili? Siamo noi stessi”, dice Francesco Zonin: “Nessun altro paese ha un patrimonio di varietà di vitigni come l’Italia. Abbiamo raggiunto un livello qualitativo medio che non ha paragoni, ma ci resta l’handicap della promozione e della comunicazione. Dobbiamo ancora progredire: oltre a produrre ottimi vini, bisogna promuoverli meglio”. Quali vini e per quali mercati? “ Il nostro Sud ha un potenziale straordinario che finora si è espresso in minima parte, i suoi vini all’estero li conoscono in pochi. Il Nero d’Avola, per esempio, lavorato come si deve, con il suo calore, il corpo, il frutto e l’acidità è tutto da far scoprire. Come il Primitivo di Manduria, che pure ha una personalità inconfondibile. O, più a nord, il Vermentino della Maremma, che ha tutte le carte in regola per replicare il successo del Pinot Grigio, soprattutto in Europa Continentale e negli Stati Uniti”, aggiunge Zonin. Anche secondo Piero Antinori, il Nord America e l’Europa restano nel breve e nel medio termine i mercati di riferimento per i vini di qualità, rispetto agli emergenti Russia (“un’incognita”), Giappone (“dopo il boom di una quindicina d’anni fa, c’è stato un netto calo e ora ci sono segni di un interessante risveglio” ) e la Cina (“ancora da studiare e da capire ”, concordano Antinori e Zonin). “La risposta dei mercati più evoluti continua a essere positiva per i classici, come il Chianti Classico, il Nobile di Montepulciano, il Brunello, i Bolgheri e qualche supertuscan”, aggiunge Piero Antinori e conclude: “Rossi meno caldi, meno alcolici, non sovraestratti, più eleganti; e bianchi più espressivi dei terroir e dei vitigni da cui provengono, più caratterizzati, più minerali e più seducenti all’olfatto”. E tuttavia non possono essere sottovalutate le indicazioni che vengono dal mercato più importante, gli Stati Uniti, che cresce sì, ma tende a privilegiare in termini di vendite sempre più i vini locali, americani. Un mercato che, in generale, tende a polarizzarsi: da un lato la grande distribuzione e il consumo a bicchiere sempre più diffuso nei bar e anche nei ristoranti premia i vini di prezzo più basso; dall’altro cresce il numero di appassionati disposti a spendere cifre importanti per le etichette più prestigiose; e patisce la fascia intermedia. “La polarizzazione è nei fatti”, dice Ettore Nicoletto, amministratore delegato del Gruppo Santa Margherita, che ha chiuso il 2013 con il miglior bilancio di sempre, “dobbiamo quindi rispondere con vini che si distinguano per una seria di valori ormai irrinunciabili, che i consumatori più preparati richiedono: sostenibilità ambientale in tutte le fasi del processo produttivo, capacità di esprimere lo stretto legame fra il vino, il vitigno, il territorio e la sua storia, e, per quel che riguarda le caratteristiche proprie del vino, una sua personalità, un’identità, fondata più sull’eleganza che sulla potenza, per esempio con un utilizzo dell’affinamento in legno non invasivo. Sono questi i valori che per quel che riguarda i vini di Santa Margherita corrispondono al profilo del Pinot Grigio, vino storico ed evergreen, del Chianti Classico di Lamole, della gamma degli altoatesini Kettmeir”. Nelle parole degli attori più consapevoli della scena del vino italiano riecheggiano come un mantra le tre parole che ne hanno caratterizzato l’impegno nell’ultimo decennio: qualità, identità, marketing. Chi saprà declinarle al meglio, vincerà la sfida dei mercati.

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