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NEL NOME DEL VINO

L’importanza di chiamarsi (o meno) Biondi Santi, Quintarelli e Cinelli Colombini

A WineNews, le storie intergenerazionali di Lorenzo Magnelli, Francesco Grigoli Quintarelli e Violante Gardini Cinelli Colombini

Il vino italiano ha le sue dinastie, la sua aristocrazia, fatta di famiglie che hanno legato il proprio nome a quello dei grandi territori del vino, che hanno rivoluzionato e portato alla gloria enoica con la forza delle proprie idee e del proprio lavoro. Nomi che chi ama il vino conosce a memoria, come una filastrocca, come la formazione dell’Italia Campione del Mondo del 2006. Linee dinastiche che, con il succedere delle generazioni, si allontanano dal capostipite, diluendo la storia in nomi nuovi e diversi, che a ben guardare, però, tra i filari, in cantina e dentro alla bottiglia conservano ancora quel portato di ingegno e quella tensione alla qualità propria del capostipite. Più o meno lontano nella linea dinastica, come raccontano le storie di Lorenzo Magnelli, alla guida de Le Chiuse, una volta della famiglia Biondi-Santi, cui Lorenzo è legato per discendenza materna; Fiorenza Quintarelli, figlia e custode dell’eredità vitivinicola di Giuseppe Quintarelli, che ha deciso di “regalare” il proprio cognome ai figli, Francesco e Lorenzo; e Violante Gardini, che si divide tra Casato Prime Donne e Fattoria del Colle, portandosi dietro l’onore e l’onore del cognome materno: Cinelli Colombini.
Nomi, o meglio cognomi, che per due territori simbolo del vino italiano, quello del Brunello di Montalcino e quello della Valpolicella, significano tantissimo, per non dire tutto. E qualcosa in più vogliono dire per chi, quei cognomi, li porta orgogliosamente, più o meno esplicitamente. “Quando morì nonno Tancredi”, racconta Simonetta Valiani Biondi Santi da Le Chiuse, ricordando Tancredi Biondi Santi, che ha guidato il Greppo fino al 1970,
“lasciò al figlio Franco quasi tutto, come si usava fare all’epoca. Alle due femmine andarono terreni ed altre proprietà nel Comune di Pienza e, a mia madre, alcuni poderi e Le Chiuse nel Comune di Montalcino. Con l’obbligo che restassero parte del Greppo e che, in caso di vendita, avrebbe avuto diritto di prelazione. Per anni mia madre ha affittato le vigne a Franco Biondi Santi, e fino al 1990 è rimasto tutto così. Nel frattempo, abbiamo ristrutturato i vigneti, proprio con l’aiuto di Franco, grazie al quale abbiamo conservato la tipicità de Le Chiuse, da cui il Greppo produceva le Riserve. Innestammo, con un lavoro gigantesco, il Sangiovese sulle viti selvatiche americane - ricorda Simonetta Valiani - e nel 1992, sempre seguendo i consigli di Franco, abbiamo preso in mano l’azienda, sempre seguendo la tradizione di come si faceva il Brunello al Greppo”.
Questione di cognome, portato con eleganza, sottovoce, senza mai farne sentire il “peso”, ma anche e soprattutto di patrimonio genetico, trasferito al figlio Lorenzo, che di cognome fa Magnelli. Enologo, e alla guida de Le Chiuse da anni. “A Montalcino ho imparato l’importanza del nome e cosa possa significare per il territorio, riflettendo molto sul reale valore de Le Chiuse, o su quanto la dinastia Biondi Santi abbia valorizzato non solo il Greppo, ma soprattutto il Sangiovese in alcune zone di Montalcino, come qui a Le Chiuse fece prima Tancredi e poi Franco. Sono cresciuto con disciplina e rispetto per il lavoro fatto dai Biondi Santi, e per l’istituzione che rappresentano ancora oggi con Jacopo: mi sento un custode di questa zona, e la mia preoccupazione principale è quella di rispettare Le Chiuse e la storia che rappresentano, la sua terra ed i vini che sa regalare. E, soprattutto, il suo vitigno, il clone originale del Sangiovese Grosso, da preservare ed esaltare nel solco della tradizione: usando lieviti indigeni, cemento, botti vecchie di rovere di Slavonia per l’affinamento”. E il nome? “Il nome Biondi Santi sono le fondamenta ed un onore, è un privilegio guidare un’azienda che ai tempi faceva parte di una realtà del genere, ed essere comunque parte di una famiglia così importante. Oggi, però, Le Chiuse è Le Chiuse, ormai al di là di Biondi Santi, una realtà che cammina sulle sue gambe, con la forza delle proprie idee, che ha ben chiaro dove vuole andare”. Tenendo sempre a mente gli insegnamenti del passato, che prescindono nomi e cognomi.
Se il Brunello ha in Biondi Santi il suo padre nobile, la Valpolicella deve molto, moltissimo, alla figura mitica di Giuseppe Quintarelli, tra i padri dell’Amarone, dalla cultura antica ma con la visione del nuovo ben chiara, una vita nella cantina fondata dal padre nei primi del Novecento, dando impulso alla produzione, seppur di nicchia, sempre accanto alla moglie Franca, in una lunga storia d’amore e di vino. Dal 2012, dopo la sua scomparsa, l’azienda è passata sotto la guida della figlia Fiorenza, che la conduce con i figli Francesco e Lorenzo.
“Ci stiamo appropriando poco alla volta dell’importanza di portare avanti la tradizione ed il nome Quintarelli, rendendomi conto giorno dopo giorno cosa significhi e cosa comporti”, racconta Francesco. “La cosa più importante che ci ha lasciato il nonno sono le prescrizioni, le tecniche ed i criteri per un lavoro di altissima qualità, a qualsiasi costo, economico e di tempo. E questo porta con sé anche scelte antieconomiche, o poco comprensibili, gestendo non solo il vino, ma anche il nome. Per tutelarlo e gestirlo, anche dicendo dei no, proprio come faceva il nonno”. Ma il nome Quintarelli, va saputo “portare”, senza sbandierarlo. “Io e mio fratello, nel 2016, abbiamo deciso di aggiungere il cognome della mamma, ma non amiamo spenderlo. È stato un passaggio necessario per portare avanti il nome di nonno Giuseppe, che ha avuto quattro figlie. A livello commerciale, è importante che il vino si chiami Quintarelli, non noi, anche se portarne il nome ci dà qualcosa in più nel nostro lavoro”.
A ricordare la figura di Giuseppe Quintarelli, è la figlia Fiorenza. “È sempre qui con noi, tra le botti. E portarne il nome è una responsabilità enorme, ma la storia deve continuare, e con l’aiuto di tutta la famiglia mi pare che ci stiamo riuscendo. Ci stiamo mettendo tutto ciò che ci ha lasciato Bepi, ossia passione, impegno, sperimentazione e poi abbiamo una botte dedicata a lui ed una dedicata alla mamma, è un modo per sentirli sempre qua, con la loro energia, che si sprigiona ancora oggi dalla sala degustazione. I miei figli - spiega Fiorenza Quintarelli - hanno aggiunto al loro cognome il mio perché così è tutto più semplice, diventa più facile guidare l’azienda, ma sempre nel solco della tradizione. E questo non vuol dire non cambiare nulla: abbiamo ristrutturato la cantina, negli anni scorsi, senza tradirne l’essenza”.
A chiudere il cerchio, tornando tra i filari del Brunello di Montalcino, ma con uno sguardo che si allarga sulla Val d’Orcia, la storia di Violante Gardini Cinelli Colombini. “Sono cresciuta in questo mondo ed in questo territorio, nel mito di nonno Giovanni, che ha avuto un ruolo cruciale nel portare Montalcino dove è oggi, facendo cose importanti per tutti. È una fortuna avere alle spalle un nome ed una famiglia, del genere, che crede in certi principi ed in questo territorio, da vivere da vicino e da portare in giro per il mondo”. Un legame, con il ramo materno della propria famiglia, che Violante ha sempre coltivato, “dalle cene con la nonna alla decisione di aggiungere il cognome di mia madre, Cinelli Colombini, al mio”. Una scelta che racchiude in sé due aspetti, “da un lato l’onore di rappresentare la mia famiglia, dall’altro l’esigenza commerciale: quando mi presento ad un cliente, così, è più semplice. Mi sento agevolata nel raccontarmi, nel dire chi sono, nel fare sì che chi ho fronte mi identifichi con la mia storia aziendale e la mia famiglia”.
Una storia, quella legata al nome Cinelli Coombini, che non è però un freno alle idee, né una via stretta entro la quale muoversi. “Il cognome è un modo per presentarsi, ma che non identifica in toto chi si è, anzi, specie noi giovani dobbiamo metterci del nostro. Del resto - riprende Violante - lo sprone da parte di mamma Donatella non è mai mancato: mi ha sempre permesso di fare quello che volevo, dandomi la possibilità di costruire il mio percorso. Certo, essere l’ultima generazione di una famiglia così comporta delle responsabilità, ma non bisogna avere paura di portare idee nuove. Certo è che i vini di oggi sono il frutto di decisioni prese da mia madre, ma presto si vedrà anche il mio contributo, che già sto dando sul lato commerciale”.
Sono solo alcune storie, tra le tante che il mondo del vino, e non solo, potrebbe raccontare. Unite tutte da un sottile filo: sono storie di donne e di madri. Che hanno fatto tesoro delle proprie radici costruendo qualcosa di nuovo, come raccontano i filari de Le Chiuse e quelli di Casato Prime Donne, o difendendo una storia di famiglia tanto importante quanto delicata, come rivela il nuovo corso di Quintarelli. Un patrimonio di nomi che hanno fatto grande il vino italiano e che, dal 2016, sulla scorta di una sentenza della Corte Costituzionale, possono passare di madre in figlio.

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