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Nazione / Giorno / Carlino

Il Signore dei vini lascia la vigna ... Giacomo Tachis, padre della moderna enologia, ha deciso: si dedicherà solo alla famiglia... Il principe si è tolto la corona. “Ho settantasette anni, ho avuto grandi soddisfazioni, voglio dedicarmi solo alla mia famiglia, ai miei nipoti, ai miei libri”: come un moderno Cincinnato, che sente di aver concluso il suo compito, Giacomo Tachis, uno dei maestri della moderna enologia italiana, abbandona il campo. Si ritira nella sua casetta di San Casciano Val di Pesa, nella campagna toscana in cui ha passato cinquant’anni della sua vita e della sua attività. Nato a Poirino, nel Torinese, e diplomato alla scuola enologica di Alba, Giacomo Tachis approdò appena ventottenne alla corte degli Antinori, proprio a San Casciano. Ci è rimasto 32 anni, ne è diventato direttore, e per Antinori ha creato due dei vini più conosciuti nel mondo, il Tignanello e il Solaia. Ma il suo “capolavoro” è sicuramente il Sassicaia, capostipite della generazione dei Supertuscan e della rivoluzione “alla francese” compiuta dal mondo del vino italiano proprio con Tachis come portabandiera. Schivo per natura, e da un po’ di tempo affaticato da qualche problema di salute, Tachis si schermisce di fronte agli elogi ma accetta di parlare del vino, il suo mondo.

Che bilancio si sente di tracciare di questi cinquant’anni?

“Sono contento di essere stato in Toscana, di aver lavorato con i toscani. Sono contento per quello che non ho fatto: ho evitato bischerate e brutte figure”.

Quando cominciò, pensava di poter raggiungere certi traguardi?

“No, ma solo perché sottovalutavo l’interlocutore: chi seguiva l’uva e il vino”.

E qual è, in fin dei conti, il vino più importante della sua vita?

“Il Sassicaia. Come Lévy Strauss in “Il Cotto e il Crudo”, penso che ciò che è buono da mangiare (e da bere) è pure buono da pensare, cioè alimenta culturalmente. Deve essere pensato bene prima di essere consumato bene”.

Come vede ora il mondo del vino, in questo momento di crisi?

“Lo vedo con tristezza, perché è il mondo al quale ho dedicato l’anima e il corpo, non solo l’intelletto ma anche il cuore. Ma il vino non andrà in crisi, la gente lo beve e lo berrà sempre”.

Un mondo rovinato dagli eccessi commerciali?

“Dipende dai punti di vista. Una spinta solo commerciale è brutta, passa avanti la convenienza personale. Che ha portato progresso, ma ha generato tendenze speculative. Comunque non ce l’ho con nessuno in particolare, ho sempre stimato e rispettato i miei colleghi”.

Che infatti la chiamano “maestro”.

“Mi fa ridere: nessuno è “maestro”, è solo un diploma per insegnare alle elementari”.

Ma per lei conta più la vigna o la cantina?

“La vigna. In cantina si usa troppa chimica, oggi. Ma d’altra parte c’è il vino del povero e del ricco, il vino fatto semplicemente dal contadino, in armonia con la natura, e il vino fatto con tecniche più sofisticate, che punta sulle uve blasonate”.

Più il territorio o lo stile?

“Sono l’uno espressione dell’altro, e viceversa”.

Lei ha fatto grandi anche i vigneti di Sicilia e Sardegna: che soddisfazioni le hanno dato?

“Belle. Perché io ho sempre guardato al risultato. Belle: dove c’è luce e clima buono, il vino viene buono, le isole sono benedette da Dio. Perciò ora punterei su Malta”.

Un messaggio, per chiudere questo capitolo?

“I giovani devono essere aiutati e incoraggiati, sono sempre in buona fede, è un difetto ingannarli... In ogni campo, ma specialmente nel vino, perché credono in noi”.

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