Prima i futures, poi le obbligazioni con warrant, poi i fondi comuni sui grandi vini. E la Borsa ? Per il momento, no, e sono molti i perché. La Borsa può sì aiutare a svilupparsi, ma è fondamentale prima che la dimensione di un’azienda cresca (e nel mondo del vino si fatica non poco a trovare realtà con più di 100 miliardi di fatturato). Ma non è il solo motivo, perché manca da parte della finanza anche l’interesse all’attività. Insomma, anche se prima e poi sarà inevitabile, la Borsa resta per il momento lontana dal mondo del vino “made in Italy”. Le uniche aziende vicine, ma indirettamente, alla Borsa sono la piemontese Tenimenti Fontanafredda, di proprietà della banca Monte dei Paschi di Siena, una delle società più capitalizzate della Borsa italiana (appartenente tra l'altro al paniere dell'indice Mib 30) e la casa vinicola Santa Margherita, che fa parte del gruppo veneto della Industrie Zignago Santa Margherita.
Così non è in Francia, dove ormai lo Champagne fa parte di quel settore dei consumi di lusso, insieme alla moda, e non c’è griffe delle bollicine di qualità che non sia tra le proprietà più significative delle holding, come ad esempio nel caso della Lvmh di Bernard Arnault (Chateau D'Yquem, Moet & Chandon, Veuve Clicquot, Krug, Pommery, Hennessy, Hine, Dom Pérignon, Chandon Estates, Mercier, Ruinart, Canard-Duchéne, Cloudy Bay). Ma oltre alla Lvmh, lo Champagne è presente in Borsa con Boizel Chanoine Champagne (che ha i marchi Philipponnat, De Venogne, Bonnet), Pol Roger e Vranken Monopole (con i marchi Demoiselles e Charles Lafitte). Le azioni “rosse” di Borgogna sono invece Boisset, Cottin Freres, Jeanjean, Languedoc Russillon. In Francia, sono poi quotati, anche alcuni produttori di barriques e botti, come Francois Freres, Radoux International, Sabate e Seguin Moreau (le migliori di queste aziende - Sabate e Seguin Moreau - hanno un rendimento annuo del 5/6%). Le migliori performances del ‘99 in Francia sono state della Boizel Chanoine Champagne (sul 7,5%).
Ma le aziende del vino più proiettate verso la Borsa sono in Australia e negli Usa, dove queste realtà sono davvero molte (in Australia, ad esempio, c’è addirittura un fondo d’investimento specializzato, il The First Wine Fund). Il problema comune è comunque che le azioni di queste aziende garantiscono un rendimento non certo paragonibile alle vere “blue chips” della Borsa: in Usa, i tre maggiori titoli del vino hanno un rendimento medio del 5%, molto basso rispetto al 27% dell’indice generale.
Dunque, chi acquista i titoli del vino non lo fa certo come investimento economico vero e proprio ma piuttosto per passione nei confronti del prodotto. E le aziende del vino quotate, questo problema, lo hanno ben capito e propongono, infatti, ai propri azionisti tutta una serie di servizi e benefits aggiuntivi: viaggi organizzati in territori del vino, cene con personaggi e con il management, uso delle cantine per feste private, sconti sugli acquisti di vino. A volte, addirittura, i dividendi sono pagati con speciali cedole che poi l’azionista può trasformare in vino.
La quotazione in Borsa del vino è, dunque, in poche parole, più un ottimo modo per fidelizzare con il cliente, o per superare eventuali e complessi problemi ereditari o di successione al comando dell’azienda, piuttosto che un modo per reperire capitali per stare al passo della concorrenza e per sviluppare l’azienda.
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