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Panorama Economy

Il grande bluff… Il mercato del vino in Italia sembra impazzito. Mentre i consumi calano, i prezzi della stessa bottiglia, tra il negozio all’angolo e il ristorante di lusso, possono aumentare fino al 310%. Non si credete? Economy ve lo dimostra. E spiega perché.
Al supermercato una bottiglia di Pinot grigio friulano del 2004, buona ma non indimenticabile, costa poco meno di 7 euro. Si scende sotto i 5 solamente se si scelgono aziende agricole meno conosciute. Ma chi al ristorante ordina lo stesso vino arriva a pagarlo 12, 15 20 e persino 31 euro. Questione di fortuna. E di ricarichi. Gli stessi che in soli quattro anni hanno fatto schizzare un discreto Brunello di Montalcino da 75 mila lire a 80 euro, o che permettono a un’onesta etichetta di Chianti duplicare il suo valore a seconda del luogo di consumo. La verità è che oggi, tra il negozio all’angolo e il menù di un ristorante di lusso, lo stesso vino può subire variazioni di prezzo anche del 310%. Lo ha scoperto Economy scorrendo i menù di una dozzina di esercizi, noti e meno noti, in giro per la Penisola. E il quadro peggiora ulteriormente se i prezzi al dettaglio vengono confrontati con quelli all’origine.
La polemica, che da anni si rinnova a ogni vendemmia, nel 2005 assume contorni ancora più pesanti: se da un lato i buoni raccolti hanno fatto crollare i prezzi delle uve, dall’altro i valori del vino al dettaglio non hanno subito alcuna battuta d’arresto. Basta dare un’occhiata ai grafici di queste pagine per capire come i prezzi siano in grado di lievitare, dal vigneto alla tavola, in maniera quasi inspiegabile. Una bottiglia di fascia medio-bassa come il Pinot grigio, per tornare a uno dei nostri primi esempi, esce dalle cantine dei produttori (già etichettata) a non più di 3,5 euro. Ma chi decide di stapparlo in un notissimo ristorante padovana potrà pagarlo fino a 31 euro. Forse l’accostamento gastronomico non è dei più felici, ma se il malcapitato di turno avesse deciso di abbinare una pizza al pinot, sarebbe andato incontro a ricarichi più onesti: nelle pizzerie i prezzi rilevati da Economy sono decisamente più bassi.
Il listino non è gentile neppure nei confronti degli appassionati del Chianti. L’annata 1998, prodotta da una tenuta a marchio docg, oscilla tra i 29,49 euro della grande distribuzione e i 63 richiesti da un pluripremiato gourmet milanese, lo stesso che quattro anni fa per la medesima etichetta chiedeva al massimo 50 mila lire.

Le associazioni sparano a zero. La forchetta dei prezzi sembra diminuire in funzione del prestigio della bevanda prescelta: per un Brunello di Montalcino del 2003, la differenza tra l’importo più alto (ancora a Milano) e il più basso (un ristorante di medio livello a Roma) è infatti di “soli” 21,5 euro. Ma ordinando la stessa bottiglia online è possibile riceverla direttamente a casa risparmiandone almeno una decina.
La ricerca condotta da Economy è pragmaticamente indicativa. Ma l’eccessiva sperequazione è un fatto ormai noti ai consumatori, e i suoi risultati sono sotto gli occhi di tutti. Da circa due anni, si è imposta anche in Italia la wine bag: a Roma e Milano quasi ogni ristorante offre, su richiesta, sacchetti di carta stretti e alti dove è possibile riporre la propria bottiglia di rosso non terminata, per poi portarla a casa. A cena, lo sguardo dei clienti abbandona sempre più spesso la carta dei vini per posarsi sull’offerta “al calice” e mentre i locai italiani denunciano una contrazione dei brindisi stimata tra il 3 e l’11%, le loro cantine rischiano ormai di scoppiare per il sovraffollamento.
La domanda a questo punto diventa inevitabile. Chi è il colpevole di questa lievitazione? Le associazioni dei consumatori da tempo puntano il dito contro i ristoratori, responsabili (complice anche il passaggio all’euro) di aumenti ingiustificati rispetto all’andamento del mercato. In effetti, anche i numeri snocciolati in queste pagine dimostrano come i rincari più elevati si concentrino soprattutto sull’ultimo passaggio della filiera. Ma non sempre le cose sono come sembrano: “Di certo anche tra di noi c’è chi ha lucrato pesantemente sulla situazione”, ammette Edi Somariva, direttore generale di Fipe (associazione aderente a Confcommercio che raccoglie i gestori di bar e ristoranti). Ma i ristoratori, aggiunge, non sono i soli responsabili: sul prezzo finale gravano i costi di mantenimento, quelli per il personale, gli ammortamenti e i rischi connessi. “Sa cosa significa vedersi scoppiare qualche bottiglia davanti agli occhi o trovarsi la cantina allagata dopo un’alluvione?” chiede Somariva. “la verità è che ai gestori rimane in tasca al massimo il 18% su ogni litro che vendono”.
Sulle ragioni del caro-brindisi, poi, Somariva ha una sua teoria ben precisa: “La filiera, troppo lunga, fa lievitare i costi vivi. Ma riconosciamo ai produttori di avere fatto in questi anni i salti mortali per renderla più efficiente” E allora? “Il vero problema restano i distributori: i loro metodi di vendita sono sempre più spesso basati sul ricatto. Quasi ogni grossista, oggi, obbliga chi vuole una bottiglia del vino famoso e premiato dalle guide a comprarne anche 12 o 18 di altre etichette in listino, che poi risultano difficili da piazzare. Così a tavola la giacenza invenduta di vini di serie B si ripercuote anche sul costo del Brunello di turno. E’ chiaro che in questo caso noi siamo impotenti”.

Il distributore, anello debole. La situazione, insomma, per quanto possa apparire paradossale, è questa: il distributore è allo stesso tempo colui che assorbe la quota di maggior profitto dal vino, ma anche l’anello della catena che più di ogni altro rischia di essere “saltato” a piè pari a causa della congiuntura. Del resto, il consumatore non tollera a lungo di pagare prezzi elevati cui non corrisponda un pari valore percepito.
Ma gli intermediari non ci stanno, Paolo Dardanelli, distributore in Lombardia e Veneto, accusa: “Quest’anno ho visto colleghi che per far quadrare i conti hanno dovuto dare via il loro stock a prezzi scontati del 50%. La storia che coltivatori ed esercenti dovrebbero accordarsi tra loro per risparmiare sa di vecchio. Da queste parti ristoranti e vigneti sono praticamente dirimpettai, eppure sono in pochi a fare il grande passo. Il motivo? Dovrebbero trascorrere tutto il loro tempo fra fiere e cantine, dimenticando i fornelli. Senza contare i rischi e gli esborsi legati al trasporto delle bottiglie.
Difficile dire dove stia la verità. Averardo Borghini Baldovinetti, giovane produttore di Chianti e gestore di enoteca a Milano, prova a mediare tra le diverse posizioni: “Il settore vinicolo italiano è in fase di bolla speculativa. E quando un settore è ai massimi, in genere sono gli attori intermedi della filiera a correre i maggiori rischi.
Forse i distributori non sono consapevoli di questa loro precaria posizione, accecati dalla relativa facilità con cui, negli ultimi anni, sono riusciti ad ottenere grandi profitti senza particolari sforzi. Anche i ristoranti, però, hanno la loro parte di colpa.
Poco tempo fa, Borghini Baldovinetti racconta di essere andato a cena in un ristorante e di avervi trovato uno dei suoi vini a 21 euro: “So bene che il titolare lo ha pagato meno di 4” sorride amaro “e ho smesso di rifornirlo. In tempo di crisi, il consumatore finale ha tutto il diritto di mostrarsi maggiormente selettivo. Ecco perché la fama dell’etichetta, da sola, non basta più a giustificare i sovrapprezzi che vediamo in giro”. Per Borghini Baldovinetti, comunque, la soluzione è semplice: “I commercianti devono riscoprire l’amore per il vino. Solo così saranno in grado di scovare etichette di qualità, non necessariamente dispendiose, da proporre ai loro clienti. Che riscopriranno il rito autentico di bere buon vino spendendo il giusto”.
Più amore per il vino. Certo, aiuterebbe un mercato in crisi. Ma basta la passione, di fronte a questi amari calici?


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