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Panorama Economy

Per il ristorante cambiano il nome ... La coop trentina Cavit è riuscita a conquistare gli americani adattando
l'immagine del suo vino ai vari segmenti di mercato: dai negozi
al dettaglio alle tavole più raffinate... Da una parte c'è il tappo in silicone, l'etichetta sgargiante, la forma più “panciuta” della bottiglia. Nel ripiano più in basso, il tappo è di sughero, l'etichetta sobria e la bottiglia più affusolata. Ma dentro il vino è praticamente lo stesso. Per soddisfare l'occhio, più che il palato, dei consumatori americani e italiani, Cavit ha ribaltato completamente la sua immagine, segmentando i suoi brand tra i diversi mercati di destinazione e tra i canali di distribuzione.
“Quello che va bene negli Stati Uniti non funziona in Italia” attacca Giacinto Giacomini, direttore generale della cooperativa che riunisce 11 cantine sociali del Trentino-Alto Adige che producono 75 milioni di bottiglie all'anno. “Il vino che si vende nella grande distribuzione non potrà mai essere proposto nei grandi ristoranti”.
Dopo 30 anni passati a innaffiare di Pinot bianco il mercato degli Stati Uniti e qualche scivolone nella distribuzione (l'accordo con i californiani Gallo è saltato lo scorso anno) “siamo riusciti
a conquistare la leadership di mercato con Cavit Collection” sottolinea Giacomini, “il brand più esportato negli Usa con oltre 3,5 milioni di casse e un volume d'affari di circa 100 milioni di euro all'anno”. Artefice dell'escalation di Cavit negli Usa è Massimiliano Giacomini, export Usa manager e figlio del direttore generale. “Per conquistare gli americani bisogna ragionare con la loro testa” afferma Giacomini junior.
“Quando abbiamo lanciato il nostro prodotto di alta gamma per il mercato Ho.re.ca (alberghi e ristoranti, ndr) pensavamo di utilizzare il marchio italiano: Bottega Vinai. Ma non funzionava. Avevamo bisogno di qualcosa di più glamour, un'assonanza con i grandi vini toscani, per esempio, il Sassicaia. Così, d'accordo con il nostro importatore storico, Palm-bay, abbiamo deciso di lanciare il brand Bottega Vinaia”.
Un semplice gioco di parole che si è poi riprodotto sui sei brand (ciascuno
ha in media 4-5 etichette diversificate tra
grande distribuzione e Ho.re.ca.) presenti sul mercato americano, che con il
70% dei 154 milioni di euro di export è
il primo mercato di Cavit. Ma il processo di riposizionamento del brand arriva
in alcuni casi addirittura a posizioni
estreme. Se il marchio “Cavit Collection” domina la grande distribuzione,
legando indissolubilmente il brand Cavit al prodotto, nella fascia alta del mercato si cambia strategia e il nome di Cavit non compare neppure nell'etichetta.
“Sono due categorie completamente
diverse, hanno posizioni distantissime
l'una dall'altra, pur essendo della stessa
azienda” aggiunge l'export Usa manager. “Il cliente deve rimanere sorpreso.
Sempre”. Difficilmente, si potrà trovare
un vino con il logo Cavit in un ristorante di Soho a New York. “Come in Italia,
i ristoratori stanno molto attenti a non
mettere nella loro carta dei vini etichette che si trovano nel supermercato. Anche perché vogliono gestire il prezzo in
maniera autonoma”.

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