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Parlare di “rischio insolvenza” per il mondo del vino italiano è eccessivo ma, in questo senso, qualche campanello d’allarme tra le cantine inizia a suonare. Il perché lo spiega a WineNews Stefano Cordero di Montezemolo, esperto di finanza strategica

Italia
Stefano Cordero di Montezemolo

Parlare di “rischio insolvenza” per il mondo del vino italiano è eccessivo ma, in questo senso, qualche campanellino d’allarme inizia a suonare e non va sottovalutato. “Aumenta, soprattutto, la forbice tra aziende sane e strutturate, e aziende che soffrono”, spiega a WineNews Stefano Cordero di Montezemolo, esperto di finanza strategica e coordinatore scientifico di “Business International” (FieraMilano, www.businessinternational.it). Dagli anni ‘90, quando sono stati realizzati molti degli investimenti che hanno portato alla crescita del vino italiano, ad oggi, è cambiato tutto: “le prospettive economiche erano diverse, per crescere si è ricorsi spesso all’indebitamento anche perché le banche volevano allargare il mercato dei mutui, e garanzie come la proprietà fondiaria erano molto valutate, soprattutto nel vino”, spiega Montezemolo. Poi è arrivata la crisi, che ha cambiato tutto, e ha svelato che “molte imprese vinicole avevano una forte esposizione di debiti correnti rispetto a ciò che la struttura patrimoniale avrebbe richiesto. Difficile trovare una regola per stare al riparo dai rischi, ma diciamo che, quando il debito è superiore di una volta e mezzo ai mezzi propri, suona il campanello d’allarme”.
Professore, quale è secondo lei la situazione debitoria delle cantine del Belpaese, in generale?
“Fino alla fine degli anni ’90 - spiega Montezemolo - le imprese del vino italiano sono cresciute sostanzialmente attraverso una crescita interna, quindi riqualificando le proprie produzioni o rivitalizzando le proprie disponibilità terriere. Il decennio successivo, che è stato un periodo di grande positività di risultati, e che con l’introduzione dell’euro ha certamente portato ad una forte riduzione dei tassi d’interesse, e quindi alla percezione di un contesto finanziario favorevole, ha visto molte imprese cominciare ad espandere le loro attività, incrementando la produzione con l’acquisto di altre proprietà o attraverso grossi investimenti della propria capacità produttiva. In gran parte questo è stato fatto con indebitamento, anche perché in quel periodo le banche erano molto interessate all’allargamento del mercato dei mutui, perché storicamente era un settore compresso nel finanziamento italiano per ragioni legate al contesto finanziario, e quindi molte banche si sono rese disponibili anche con sopravvalutazioni dei patrimoni, legate al fatto che, in quegli anni, la proprietà fondiaria era valutata molto, soprattutto quella vinicola. Questo ha spinto a finanziamenti anche che andavano oltre alle possibilità effettive delle imprese di poter ricorrere al debito. Il quadro è totalmente cambiato con la crisi finanziaria del 2008. Un dato interessante che emerge dal mio osservatorio, è che molte imprese vinicole avevano una forte esposizione di debiti correnti rispetto a ciò che la struttura patrimoniale avrebbe richiesto. Quindi i debiti finanziari legati ad anticipazioni, a affidamenti che però hanno durata breve: sono sostanzialmente delle aperture di credito sulle quali poi teoricamente le banche possono richiedere la restituzione immediata. Mentre il mutuo è invece una forma di finanziamento a medio-lungo termine in cui il debitore paga gli interessi e una rata di ammortamento del debito periodica. Questo è un punto che va sottolineato perché quando c’è più debito corrente le aziende sono più soggette alla possibilità che le banche chiedano dei rientri immediati, e quindi non sono in grado di fronteggiare questo tipo di esigenza.
Il punto centrale è che molti investimenti fatti in quella fase storica, e che magari si sono realizzati anche successivamente, sono stati fatti in un quadro di riferimento che poi si è profondamente trasformato. Il settore vinicolo italiano, va detto, ha un livello di capitalizzazione (cioè di mezzi propri) che è superiore alla media dei settori industriali italiani. Ma rispetto al tipo di struttura dell’attivo, cioè del tipo di investimenti che le aziende fanno, ha una struttura di finanziamento insoddisfacente. Anche perché, punto caratteristico di questo settore, le scorte hanno dei tempi medio lunghi. Non hanno una rotazione accelerata. Perché molte aziende hanno dei processi di vinificazione che portano poi a collocare il vino in 3-5 anni sul mercato. Ci deve essere quindi una dotazione di mezzi propri che deve essere superiore rispetto ad altri settori. Questo è il lato negativo.

Il lato positivo è che, alla luce di questa situazione, le banche sembrerebbero aver capito che non ha più molto senso finanziare queste aziende con garanzie reali, come fondi terrieri e proprietà immobiliari, altro punto di forza che le aziende vinicole hanno creduto di avere quando ricorrevano ai debiti bancari.
Si è innescato un cambio di atteggiamento delle banche che sono più sensibili a verificare la reale capacità economica delle imprese, ovvero la capacità di avere risultati economico-finanziari positivi per dimostrare la capacità di rimborsare debiti ed essere solvibili nel medio termine”.
C’è una “regola”, un parametro sul rapporto tra fatturati e debito che le aziende vitivinicole e le banche dovrebbero guardare con maggiore attenzione per non correre rischi?
“Le banche dovrebbero seguire i cosiddetti parametri di Basilea, però questi parametri nella realtà ancora non sono stati effettivamente implementati perché la crisi finanziaria ha prodotto una situazione di rinvio, adeguamento ed applicazione di questi parametri in considerazione al fatto che le banche sono in crisi loro stesse e devono gestire al meglio le esposizioni che già hanno. Dall’altra le imprese, non essendo ancora preparate, in qualche modo hanno fatto sì che questi parametri non siano effettivamente adottati. In prospettiva certamente ci sarà la necessità di tutte le imprese di avere una situazione economico-finanziaria che sia in linea con tutti quei parametri che vengono richiesti per garantire l’accesso al credito. Detto questo, se dovessimo applicare i criteri che vengono seguiti dal mercato di borsa, il livello soglia è di 0,75.
Cioè, sostanzialmente - spiega Montezemolo - quando il debito incomincia ad essere una volta e mezzo i mezzi propri, suona il campanello d’allarme. Il mercato a quel punto considera l’impresa in crisi. Ovviamente questo in termini assoluti, perché poi bisogna vedere se l’impresa è in fase di crescita espansiva e se il debito si giustifica sul fatto che c’è una crescita del fatturato e della redditività, e così via. È però chiaro che, in un settore ad alta intensità di capitale fisso, il debito è abbastanza giustificato, perché c’è la possibilità con gli ammortamenti di avere disponibilità finanziare per rimborsare i debiti.
Le nostre ricerche dicono, però che le aziende più indebitate producono meno redditività. Perché il debito ha un effetto boomerang, alla fine vincola l’impresa a usare i propri profitti per pagare i debiti anziché a fare investimenti”.
C’è da parlare di allarme, allora, per il vino italiano sotto questo aspetto?
“Parlare di allarme è esagerato. Ma, nonostante i dati complessivi di aggregato del settore siano sostanzialmente positivi, perché quello del vino è comunque un settore che è cresciuto più della media dell’economia italiana, la maggiore competizione ha ridotto i margini, ed è cresciuto il numero delle aziende che sono più vicine alla soglia di insolvenza. Quindi qualche segnale da non sottovalutare c’è. Diciamo che è aumentata e sta aumentando la forbice tra le aziende che hanno le caratteristiche e la forza per garantirsi la continuità e lo sviluppo aziendale, e quelle che sono sempre più in condizione di dover decidere se continuare o trovare altre strade. Le aziende più strutturate, in generale, hanno più solidità finanziaria. Tra quelle più piccole, invece, c’è una divaricazione tra quelle molto solide e redditizie, e quelle che sono sempre più in difficoltà”.

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