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VINO E STUDIO

Questione di etichetta: un approccio semiotico alla prima forma di comunicazione del vino

Dalla ProWein di Shanghai lo studio del designer e Master of Wine inglese Neil Tully
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Il Master of Wine e designer di etichette di vino Neil Tully

Questione di etichetta: se in Europa se ne discute molto, non tanto per quanto riguarda il vino ma per portare maggiore chiarezza sulla provenienza delle materie prime del cibo confezionato, in Cina “parla”, da sempre, molto più di quanto faccia nel Vecchio Mondo. Eppure, al di là della legge e delle regole, l’etichetta, ma più in generale il packaging del vino, comunica molto più di quanto immaginiamo. Come racconta Neil Tully, fondatore e direttore creativo di Amphora, azienda inglese di design e consulenza dedicata proprio al mondo delle etichette, ma anche Master of Wine, alla vigilia di ProWein di Shanghai (13-15 novembre) “il vino dovrebbe sembrare buono com’è al suo interno”. Del resto, ogni vino ha bisogno di parlare la propria lingua per comunicare al consumatore, e lo fa da sempre: nel 79 c. C. si trattava di un linguaggio semplice, quello delle anfore, nel 1663 il Claret di Pontact è stato il primo a scrivere in bottiglia la propria provenienza, ma è solo con la rivoluzione industriale, e quindi con la nascita di un vero e proprio mercato dei consumi, alla fine del XIX secolo, che l’etichetta diventa un aspetto fondamentale del vino, portando con sé un senso ben definito.
Oggi, riprende Tully, “ci aspettiamo che un’etichetta aderisca alle nostre aspettative, e con essa il packaging in generale: la bottiglia contiene un messaggio, e la lingua è un mezzo potente, parlata da elementi diversi, ossia la bottiglia, la chiusura, la carta, l’inchiostro, il formato dell’etichetta, con i suoi elementi tipografici e visivi. In questo senso, ad esempio, il formato di una bottiglia di Borgogna è immediatamente riconoscibile, sin dalla sua forma. Da un punto di vista squisitamente semiotico, l’approccio che abbiamo usato per i nostri studi, anche i vini di Bordeaux hanno tanti elementi comuni, come abbiamo visto insieme al team di Wine Intelligence (https://www.wineintelligence.com/)”. Anche l’etichetta, come ogni altra cosa nel mondo del vino, sta vivendo cambiamenti enormi: da una parte, cambia il messaggio da comunicare, con i vini naturali e rispettosi dell’ambiente che occupano sempre più spazio, e che, al di là della simbologia, anche nell’etichetta frontale cercano un modo di rendere il senso del loro lavoro, e poi i formati, con i bag in box e le lattina che rappresentano una nicchia di cui tener conto.
Restando sul piano semiotico, ogni segno, per l’appunto, ha un suo significato: “la firma, che molti produttori del Vecchio e del Nuovo Mondo mettono in etichetta, vuole ad esempio sottolineare le radici storiche dell’azienda, mentre tanti sono i marchi che richiamano l’alta qualità, pensiamo al sigillo nell’etichetta del Masseto. Poi, è importante la gerarchia: ogni produttore - ricorda Tully - decide a quale aspetto dare un peso maggiore, c’è chi mette in rilievo il territorio, chi il nome dell’azienda, chi la denominazione”.
E ancora, dall’analisi delle etichette emergono veri e proprie regole comunicative. “Le private label, ad esempio, hanno la necessità di rendersi riconoscibili a prescindere dal contenuto, tante sono le linee della Gdo inglese - spiega il Master of Wine e designer - che imbottigliano vini di tutto il mondo in cui emerge solo l’unicità della private label. Anche le differenze tra Nuovo e Vecchio Mondo sono evidenti, dalla capsula alla chiusura, con i tappi alternativi al sughero che ancora devono affrontare enormi resistenze in Francia ed Italia”.
La domanda, su quale sia l’etichetta giusta per conquistare il mercato cinese, rimane senza risposta: in quanto cuore della comunicazione di un vino deve per prima cosa avere ben chiaro il pubblico a cui ha intenzione di parlare, tenendo ben presente che il vino, negli anni, è diventato qualcosa di sempre più complesso, che la bottiglia ha il dovere e la necessità di semplificare.

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