Dopo il vino, “Report”, il programma di inchiesta condotto da Sigfrido Ranucci in onda su Rai 3, è passato alla birra, con un’inchiesta che attacca quella prodotta dalle multinazionali (in particolare quelle del gruppo Heineken) e tesse le lodi, invece, di quelle realizzate dai birrifici artigianali, in quanto protagonisti di una rivoluzione: la “Craft Revolution”, un movimento che ha portato al revival del settore della birra artigianale come alternativa alle grandi birrerie industrializzate, nato in California negli Anni Settanta e poi diffusosi in tutto il mondo (in Italia è arrivato nel 1996, ndr). Con ordine: il servizio “Birra... e non sai cosa bevi”, firmato da Bernardo Iovene, e andato in onda nella puntata dell’8 giugno, parte da lontano, esattamente dalla schiuma, ribadendo un tema noto, ovvero che quando la birra viene spillata e servita nel bicchiere la “schiuma è necessaria” perché protegge la bevanda dall’ossidazione ed evita che l’anidride carbonica rimanga intrappolata nello stomaco, causando gonfiore. Vengono rimarcate le più o meno abili capacità in questo senso dello spillatore ed emerge uno degli spunti del servizio: “far fare la schiuma alla birra” è impossibile quando si beve direttamente dalla bottiglia di una di quelle prodotte da un brand industriale. Fatti gli esempi della Forst e della Corona, si passa ai numeri del settore: la birra in Italia nel 2024 ha registrato una spesa al consumo di 101 miliardi di euro e il valore generato della filiera ammonta a 10,2 miliardi di euro.
Viene citata la multinazionale Heineken - colosso olandese della birra, n. 1 in Italia per vendite detenendo il 32% del mercato italiano e che possiede anche i marchi tricolore Birra Moretti, Ichnusa, Dreher e Birra Messina - che però, dice Ranucci “fa un po’ la furbetta”. Davanti a Ilaria Zaminga, responsabile della comunicazione Heineken Italia, Iovene parte con le accuse citando il caso della Birra Messina , il cui centro produttivo è stato spostato dalla Sicilia alla Puglia con una storia di vertenze sindacali sui licenziamenti di alcuni dipendenti (avvenuti, però, dopo che Birra Messina aveva rivenduto lo stabilimento ai vecchi proprietari che poi fallirono, ndr). Dito puntato, quindi, contro Ichnusa, prodotta ad Assemini (Cagliari) vicino all’area industriale della Fluorsid che negli anni, dice l’autore del servizio, “ha inquinato le falde e i terreni di arsenico, fluoro, solfati e metalli pesanti”. Subentra quindi nell’inchiesta il movimento Medicina Democratica e le analisi che ha commissionato per valutare i residui di fluoro presenti in una bottiglia standard di birra Ichnusa: secondo quelle dell’Università degli Studi di Cagliari questi sarebbero 0,45 mg per litro (da legge la concentrazione massima nell’acqua è di 1,5 mg/l), ma secondo il laboratorio Samer di Bari il valore sarebbe 16,3 mg per litro. C’è poi, infine, un terzo studio, fatto realizzare “vista la disparità dei risultati”, del quale, però, non viene mai detto chi sia il soggetto esaminatore e che dice che i mg per litro sono stavolta 18,5. Così Iovene dice a Zaminga che nelle bottiglie di Ichnusa ci sono dei residui “abbastanza alti” di fluoro. Lei spiega che queste analisi per essere veritiere devono essere eseguite sull’acqua e non sulla birra e a tal proposito mostra la documentazione dell’azienda sui valori dell’acqua utilizzata per produrre le proprie birre e i numeri sembrerebbero tutti a posto. Così “Report” contatta l’Asl di Cagliari per saperne di più, ma questi non rispondono.
Nel frattempo si alternano varie degustazioni di esperti e maestri birrai che assaggiano le birre cosiddette industriali e sono tutti concordi sul fatto che ognuna presenti almeno un difetto , anche dei più fantasiosi: quella che “sa di cerotto” (per la precisione il Salvelox) o quella che sa di “straccio” o “cartone bagnato” o “di scatola di mais vuota”, “busta di arachidi appena aperta” e persino di “morte”, oltre ai vari, banali, “troppo dolce”, “troppo amara”, o dove “non si sentono abbastanza” il luppolo o il malto. E vista la spesa al consumo, citata da “Report” stesso, di 101 miliardi di euro nel 2024 viene da chiedersi quanto effettivamente possa raggiungere questa cifra se solo queste birre industriali fossero considerate anche buone. Carlo Schizzerotto, direttore del Consorzio Birra Artigianale, spiega che agli italiani piacciono “per ignoranza”. Ma, colpo di scena, la Peroni (non più gruppo Heineken, ma della giapponese Asahi) è buona. Il servizio mostra poi un menù di un ristorante che serve l’Ichnusa non filtrata come “birra artigianale in bottiglia”, lamentando una falsa comunicazione al consumatore in quanto l’Ichnusa non filtrata non è una birra artigianale. Ma, infatti, l’azienda sarda nell’etichetta non lo scrive (al massimo la falsa comunicazione sarà quella del locale). E se la Birra Moretti avrebbe “la colpa” di avere una bottiglia troppo trasparente e quindi, “come sanno tutti” non va bene perché così la birra “prende troppa luce e si ossida”, Zaminga spiega che è semmai l’esposizione prolungata ai raggi solari che danneggia il prodotto, e che non è questo il caso.
L’ultima mezzora del servizio (lungo 1 ora e 14 minuti, ndr) è tutta, invece. incentrata sui birrifici artigianali sorti in seguito alla Craf Revolution, secondo Ranucci “una lotta romantica-eroica come quella del piccolo Davide contro Golia, ovvero le multinazionali”. Iovene spiega che “il mondo artigianale oggi con 1.000 birrifici non arriva nemmeno al 3% del mercato che resta in mano alle multinazionali, eppure gli artigiani offrono più varietà di prodotti”, birre più buone e dal gusto migliore perché lavorate artigianalmente. Con un affondo finale che parla di quattro birrifici artigianali che negli anni “hanno venduto al nemico, le più grandi multinazionali del settore”: Birra del Borgo a AbInBev, Hibu ad Heineken, Birradamare alla Molson Colors e Birra del Ducato alla Duvel. Nel finale la chiosa di Ranucci: “tradimenti a parte, con la Craft Revolution i birrifici artigianali sono riusciti a rubare una fetta di mercato dalle mani delle multinazionali e gli va riconosciuto il coraggio, come a Papillon (protagonista del romanzo omonimo di Henri Charrière, ndr) di aver attraversato un oceano di squali affamati con una zattera fatta da noci di cocco”.
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