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Repubblica

La civiltà in fondo a un bicchiere … “Elogio dell’invecchiamento. Viaggio alla scoperta dei dieci migliori vini italiani” di Andrea Scanzi… Ci vuole un certo coraggio intellettuale per sfidare sul loro terreno sommelier ed enologi. Perché qualsiasi discorso sul vino si colloca inevitabilmente fra due estremi, ovvero due modelli descrittivi che sono una specie di Scilla e Cariddi della degustazione: da un lato il modello esoterico degli intenditori, quelli che sanno pronunciare e scrivere sentenze definitive su un retrogusto “di pietra focaia”; e dall’altro lo sketch irridente e finale di Antonio Albanese, che al termine di tutto il repertorio del degustatore professionale, con i più spettacolari annusamenti, sciacqui e gargarismi, emette il suo verdetto senza alternative: “È rosso”. Andrea Scanzi ha tentato una strada diversa. Prima è diventato sommelier, studiando le migliaia di pagine dell’esame previste dall’Ais, l’associazione di categoria, e superando un esame in cui occorre sapere che cos’è la macerazione carbonica, i nomi e l’aspetto delle bottiglie, le dosi dei residui zuccherini, i vitigni della Borgogna, i distretti vitivinicoli del Sudafrica, oltre che le sottozone della Docg Chianti e una quantità di altre specificazioni da paranoici. E poi ha composto un libro che cerca di mettere insieme la competenza con il buonsenso. Ma competenza e buonsenso non basterebbero per fare di un libro sul vino qualcosa di leggibile. La caratteristica primaria e per molti aspetti originale della piccola enciclopedia vinicola di Scanzi consiste nell’essere un’enciclopedia raccontata. È vero che l’autore individua “i dieci migliori vini italiani “, facendone i capitoli portanti di un manuale del buon bevitore; ma il suo decalogo ma non si limita alle descrizioni, alle vendemmie, alle annate, alle tecniche enologiche più complesse e sofisticate. Ogni vino, e si potrebbe dire ogni bottiglia, contiene una storia. Può essere la storia di un vitigno, di una geografia e di un territorio, ma nei casi più belli si tratta della storia di una persona. Cioè di qualcuno che si è dedicato al vino con una passione che ai profani e agli astemi può apparire un sentimento sul filo dell’assurdo, ma che rappresenta in realtà un esercizio intellettuale protratto, la ricerca continua del miglioramento, la sperimentazione progressiva. In fondo, un atto d’amore verso la terra, e verso la natura: anzi, per quella combinazione di natura e cultura che alla fine si concentra miracolosamente nella bottiglia. Il libro si può leggere anche saltellando qua e là a piacere, da un Barolo a un Aglianico, da un Amarone a un Lambrusco, da un Picolit a un Sassicaia, alla ricerca di conferme e smentite, di gusti condivisi e di disgusti possibili a dispetto delle prescrizioni più autorevoli. Si apprende così che anche con il vino agisce spesso l’invenzione della tradizione, e la classicità si sposa alla moda. Scanzi, lo dichiara fin dal titolo del volume, preferisce i vini strutturati, invecchiati, frutto di lavoro e pazienza, che suggeriscono impegno e selettività negli abbinamenti gastronomici. Ma alla fine, insieme alla dimensione del racconto affiora un’idea, se si può dire, di tolleranza. C’è un vino per ogni occasione, e c’è una bottiglia borgognona o bordolese, renana o champagnotta, da stappare liberamente, senza pregiudizi e senza dogmi. L’unica certezza, per i vinificatori, è che il vino implica ricerca incessante, spregiudicatezza nell’invenzione e dedizione assoluta nel lavoro; e per i bevitori comporta una conoscenza pratica per cui il vino lo si scopre solo bevendo: ossia affinando il gusto con l’esperienza, la cultura con tutti i sensi corporei implicati nel bere. In fondo a un bicchiere, non c’è soltanto la verità, ma anche una civiltà.

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