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SE L’ABITO NON FA IL MONACO, IL TAPPO NON FA IL VINO. PAROLA DI MASI AGRICOLA, GRIFFE DELL’AMARONE DELLA VALPOLICELLA, CHE, NEL RISPETTO DELLA TRADIZIONE DA ANNI STUDIA IL COMPORTAMENTO DI TAPPI DIVERSI DA QUELLI DI SUGHERO PER I SUOI VINI ...

Italia
Raffaele Boscaini

Se l’abito non fa il monaco, il tappo non fa il vino. Ovvero, non è detto che un tappo sintetico o a vite debba essere per forza destinato ad un vino scadente, e che uno di sughero sia garanzia di grande vino. Una considerazione banale, quasi scontata. Ma, tappi a vite o sintetici che siano, anche di alta qualità, nei Paesi di grande tradizione vinicola, come l’Italia, scontano ancora tanti pregiudizi basati più sul “sentito dire” e sul luogo comune, e sulla paura di un’immagine negativa (tanto per chi produce che per chi compra) che su dati oggettivi, mentre in tanti mercati importanti e crescenti, dal Canada al Nord Europa, sono accettati come cosa normale, se non positiva. Eppure in Italia qualcuno che fa ricerca in questo senso, per sfatare questo falso mito, c’è. E non è un’interessata industria di tappature, ma una cantina intimamente legata alla tradizione, ma senza il paraocchi davanti alla ricerca e all’innovazione: è Masi Agricola, storica griffe dell’Amarone, che da anni studia e utilizza chiusure alternative al sughero per alcuni suoi prodotti, e che, soprattutto, grazie al suo gruppo di lavoro, fatto di tecnici e non solo, continua a studiare le potenzialità di tappi diversi dal sughero su una vasta gamma di vini, che vanno dagli Igt Veneto ai Valpolicella e agli Amarone, per capire come si può utilizzare una tecnologia a vantaggio di tutti.
“Per noi fare ricerca è seguire la nostra filosofia - spiega a WineNews Raffaele Boscaini, alla guida di Masi con il padre Sandro - che è quella di guardare sempre alle possibilità che ci fornisce la ricerca, lo studio, la tecnologia, la modernità. Siamo molto legati alla tradizione, ma per noi la tradizione è una cosa dinamica, non è una fotografia fatta nel tempo, è una certezza che ci viene dal tempo. Una cosa che andava bene in passato e va bene ancora oggi è diventata tradizione. E perché un tappo moderno, studiato oggi, se va bene fra 30 non può diventare tradizione? E all’estero in questo c’è una risposta molto diversa: nei Paesi dove la cultura del vino è più giovane ci sono meno preconcetti”.
E così, facendo una degustazione comparativa, come quella cui WineNews ha partecipato, si scopre che lo stesso vino (stessa annata e processo evolutivo fino all’imbottigliamento, e stesso lotto) chiuso con un classico tappo di sughero, con diversi tipi di tappo a vite o di silicone, evolve in maniera diversa, ma non per questo “cattiva”. E si scopre anche che un Igt Veneto Bianco di 4 anni si comporta perfettamente con un tappo a vite, o che è difficile riconoscere un Valpolicella che è stato in una bottiglia chiusa dal sughero da quello “protetto” da un tappo a vite. Certo, questo non vuol dire che un sughero di qualità (perché anche qui la variabilità è ampia, si va da tappi di agglomerato che costano 6 centesimi ad altri di qualità superiore che costano 1 euro l’uno!) è sostituibile sempre e comunque, tant’è che se per un bianco da bere giovane, per esempio, un tappo a vite che sigilla perfettamente la bottiglia è utile a conservare intatte tutte le caratteristiche del prodotto, per un grande vino da invecchiamento, come un Amarone, che ha bisogno di un minimo di traspirazione per evolversi come si deve, è ancora meglio un sughero perfetto, di alta qualità.
Ma in generale, dunque, per certi vini, non solo non è un eresia pensare a chiusure diverse dal sughero, ma addirittura una cosa utile e positiva, a livello qualitativo, commerciale e di marketing, per diversi motivi.
Primo: un tappo a vite di qualità da certezza di comportamento, il che, tradotto, vuol dire sapere esattamente come sarà il vino al momento dell’apertura, scongiurando totalmente il rischio di “sapore di tappo”. Secondo: la semplicità di utilizzo, visto che non servono cavatappi, senza contare la bottiglia si può richiudere perfettamente se non consumata completamente, cosa molto appetibile sia per un consumo fuori casa, e che sembra far presa sul pubblico dei neofiti del vino e delle donne. Terzo: alcuni mercati “giovani” regolati all’ingresso dal monopolio iniziano a richiedere chiusure alternative al sughero in maniera obbligatoria o “caldamente consigliata” per vini di certe fasce di prezzo, fino ai 15 dollari allo scaffale. Un tema, questo, che peraltro deve far riflettere sulla reticenza italiana a innovare il packaging in generale, in virtù di una certa paura per la perdita di immagine: in Scandinavia, ad esempio, il 52% del mercato enoico viaggia in “bag-in-box”, e non in bottiglia. Senza contare, poi, che la produzione di vino, a livello globale, sta crescendo, come stanno aumentando i consumi, almeno in volume, e bisogna anche tenere in conto che il sughero, quello di qualità, e lavorato in modo tale che garantisca il maggior grado di affidabilità possibile, ha bisogno di tempi naturali e fisiologici per riformarsi nelle sugherete. Perché, dunque, non affrontare l’argomento in maniera non ideologica, senza quella puzza sotto il naso che rischia, silenziosamente, di far perdere occasioni importanti al nostro vino. Anche perché c’è chi lo sta facendo, con evidente successo. Che serva d’esempio ?
Federico Pizzinelli

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